Così la generazione Prozac ha lasciato il posto ai gioiosi profeti dello Xanax
Cosa succederà? E’ la domanda che si fanno tutti (ad ampio spettro: economico, ambientale, terroristico). Più nello specifico egoistico, la domanda è: cosa succederà a me? Per questo, pare, da sazi depressi (generazione Prozac) ci siamo trasformati in ansiosi stressati, con il batticuore, gli attacchi di panico, gli occhi sbarrati e l’insonnia. In mancanza di risposte, la risposta temporanea e socialmente accettabile è lo Xanax, con i suoi derivati.
Cosa succederà? E’ la domanda che si fanno tutti (ad ampio spettro: economico, ambientale, terroristico). Più nello specifico egoistico, la domanda è: cosa succederà a me? Per questo, pare, da sazi depressi (generazione Prozac) ci siamo trasformati in ansiosi stressati, con il batticuore, gli attacchi di panico, gli occhi sbarrati e l’insonnia. In mancanza di risposte, la risposta temporanea e socialmente accettabile è lo Xanax, con i suoi derivati.
Un momento, qualche ora, un bacio in fronte di tranquillità, in una vita che forse in fondo nessuno desidera tranquilla. Madri alle prese con una lista troppo lunga di cose da fare (ai tempi della “Mistica della femminilità”, di Betty Friedan, non lavoravano e prendevano il Valium, comunque). Divorziati con occasionali sbornie tristi e preoccupazioni economiche che li tengono svegli. Manager con l’identico terrore di prendere l’aereo e di essere licenziati. Ma anche traslochi, presentazioni, primo giorno di asilo del figlio (ansia da distacco), agitazione per il primo appuntamento, vacanze in famiglia. “Ne vuoi uno?” è la frase gentile che ci si aspetta, dopo aver ascoltato l’altro commiserarsi per quanto è ansioso, mentre butta giù una pillola.
Prima ci si sballava per andare fuori di testa. Adesso (già da un po’) ci si sballa nel tentativo di calmarsi. Whitney Houston è morta per un cocktail di alcol, Valium e Xanax. Il New York Magazine dedica allo Xanax la copertina, e si chiede se ci siamo (gli americani, soprattutto, affetti da “calvinismo farmacologico”) pazzamente innamorati dei farmaci per l’ansia o del brivido dell’ansia stessa. Che fa lavorare di più e meglio, rispondere a diciotto email mentre si controlla Twitter, Facebook, il ritardo dei voli e si parla al telefono (non significa necessariamente lavorare, ma è faticoso lo stesso), essere insoddisfatti ma in movimento, sotto pressione, vogliosi di vincere, di farsi notare, di esserci sempre (lamentandosene, naturalmente, e la notte passare il tempo a non dormire e a preoccuparsi del fatto che non si sta dormendo).
Andare velocissimi, magari da nessuna parte ma non importa. Dicono, i calvinisti farmacologici, che non si desidera certo essere liberi dall’ansia, che detta il ritmo della vita, ma prendersi un break ogni tanto, anche ogni giorno. Nessun ansioso (cose molto serie a parte) vuole immaginare una vita senza ansia, come quando ci si lamenta ogni giorno del marito che si è sposato, ma non si pensa minimamente a lasciarlo.
Il cibo deve essere biologico, le galline devono avere razzolato felicemente e posto fine alla loro vita con serena consapevolezza, il cotone si indossa solo se è organico, le vaccinazioni fanno malissimo, la Coca-Cola uccide, l’inquinamento tortura, il nucleare ci farà esplodere tutti, ma le benzodiazepine sono una mano santa per prendersi una pausa dalle preoccupazioni per le brutture del mondo (e del pianerottolo). E sul New York Times c’è una colonnina settimanale sui motivi per cui non ci si può, almeno in questo secolo, liberare dall’ansia, dal titolo perfetto, quasi uno slogan: “We worry”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano