Decreto. O no?

Salvatore Merlo

In Transatlantico Pier Luigi Bersani si ferma a parlare con Cesare Damiano. Toni concitati. “Non so come faremo, ma io non la concludo così. Questa riforma del lavoro va cambiata, non la faccio, è una roba inconcepibile”. E poi: “Non voglio morire monetizzando il Lavoro”. Intorno a loro, intanto, fanno capolino prima Enrico Letta, poi Walter Veltroni. Tutta altra musica. Di lì a poco comincia un giro di consultazioni: metà del partito la riforma di Elsa Fornero la voterebbe così com’è.

    In Transatlantico Pier Luigi Bersani si ferma a parlare con Cesare Damiano. Toni concitati. “Non so come faremo, ma io non la concludo così. Questa riforma del lavoro va cambiata, non la faccio, è una roba inconcepibile”. E poi: “Non voglio morire monetizzando il Lavoro”. Intorno a loro, intanto, fanno capolino prima Enrico Letta, poi Walter Veltroni. Tutta altra musica. Di lì a poco comincia un giro di consultazioni: metà del partito la riforma di Elsa Fornero la voterebbe così com’è. “Sarebbe molto meglio che il governo facesse un decreto”, ha confessato ieri Veltroni ai suoi fedelissimi. E’ la cosa più rapida e indolore, pensano sia lui sia Letta sia Beppe Fioroni. Ma consultato il segretario, il capogruppo Dario Franceschini (con Rosy Bindi) ieri ha precisato la posizione ufficiale dei democratici.

    Franceschini si è rivolto al governo, che entro domani dovrà decidere (con Giorgio Napolitano) lo strumento legislativo. “La riforma va fatta per disegno di legge delega, così la si potrà emendare in Parlamento”. Una scelta strategica che, pensa Bersani, permette anche di prendere tempo. Ma i più montiani la definiscono una mossa rischiosa: l’iter del disegno di legge durerà almeno due mesi, durante i quali la linea di faglia interna non potrà che farsi sempre più evidente. “Abbiamo opinioni diverse”, spiega Damiano. “Qualcuno nel Pd pensa che la proposta così com’è vada bene, io non sono d’accordo”.

    E il senatore veltroniano, Stefano Ceccanti, avanza un dubbio: “Se ci vedono in difficoltà, quelli del Pdl si irrigidiranno e non permetteranno che si facciano emendamenti”. Con il rischio concreto, peraltro, che la posizione di Bersani, così, in Parlamento, risulti assolutamente minoritaria. Il Quirinale è intervenuto per chiarire che la scelta, tra decreto e disegno di legge, spetta a Monti. In realtà sono già cominciate consultazioni ai massimi livelli, estese anche alle segreterie dei partiti. Si va verso un disegno di legge, malgrado Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini si siano espressi più per l’ipotesi del decreto. “Poi qualche modifica anche lì sarebbe possibile”, pensa il leader dell’Udc, che teme l’esplosione di uno dei tre “pilastri” della maggioranza. Il Pd.

    Mentre alla Camera, nei capannelli, tra i deputati del Pd si misura una distanza forse irrimediabile tra i teorici dell’unità della sinistra e i riformisti che più sostengono Mario Monti, fuori dal Palazzo rumoreggiano tutte le sigle del fronte comunista, tutte le declinazioni di falci e martello d’Italia, compreso l’ex ministro della Giustizia, Oliviero Diliberto, fotografato accanto a una donna che indossa una maglietta: “La Fornero al cimitero”. Dice Pierangelo Ferrari, deputato del Pd: “L’aspetto piú sgradevole della vicenda è il rilancio del peggior linguaggio della sinistra massimalista che il confronto sul mercato del lavoro ha portato con sé”. E si riferisce a Diliberto, certo, ma anche ad Antonio Di Pietro (“noi siamo pronti a un Vietnam parlamentare”). La sinistra estrema e l’Idv dipietrista individuano il bersaglio nel governo tecnico e nel Quirinale, ma soprattutto – e questo non sfugge né a Bersani né a Veltroni – nel Partito democratico, stritolato tra la Cgil e Monti. Forse all’inizio, nel Pd qualcuno pensava che l’esperienza tecnocratica fosse la ripetizione del vecchio schema “Dini”, con Napolitano nel ruolo che fu del presidente Scalfaro. L’opinione diffusa era: purché ci si liberi di Berlusconi. Ma non è andata così. Il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, adesso sente “odore” di berlusconismo.

    Monti non è Dini e Napolitano non è Scalfaro. Felice Belisario dell’Idv risolve tutto con altri paragoni: “Monti e Fornero sono uguali a Berlusconi e Sacconi”. Come spiega Ferrari, che tiene un diario on line dei dolori democratici: “Si sta diffondendo tra noi deputati la percezione di una asimmetria politica tra i partner della maggioranza. Il Pdl alzando la voce riesce a interdire scelte sgradite al loro leader, su giustizia e Rai. Il Pd invece deve farsi carico a prescindere della tenuta del governo, anche ingoiando rospi indigesti”. Di Pietro, e la sinistra, ce l’hanno anche con il capo dello stato, regista e garante dell’operazione tecnocratica. “Dobbiamo difendere Napolitano dagli attacchi che riceve”, dice – a sorpresa – Daniela Santanché. E la pasionaria del berlusconismo rende l’idea di quello che intanto accade nel Pdl, che sta a guardare e un po’ si frega le mani. Il Quirinale è in stato di allerta e in contatto con il professor Monti, la grana del Pd va disinnescata prima che esploda: ci si orienta verso un disegno di legge, non un decreto. Quanto si può concedere per offrire a Bersani una qualsiasi bandiera di vittoria da poter sventolare?

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.