La vera storia della battaglia riformista tradita a sinistra

Sergio Soave

Il governo, dopo una serie di approfondite consultazioni con le parti sociali, ha deciso di chiedere al Parlamento una delega per riformare il mercato del lavoro e per introdurre nuovi meccanismi per la flessibilità in uscita, modificando l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Cisl, Uil e Confindustria, pur con osservazioni e critiche, sostanzialmente aderiscono al progetto, la Cgil proclama la mobilitazione e convoca scioperi generali.

    Il governo, dopo una serie di approfondite consultazioni con le parti sociali, ha deciso di chiedere al Parlamento una delega per riformare il mercato del lavoro e per introdurre nuovi meccanismi per la flessibilità in uscita, modificando l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Cisl, Uil e Confindustria, pur con osservazioni e critiche, sostanzialmente aderiscono al progetto, la Cgil proclama la mobilitazione e convoca scioperi generali. Sembra di rileggere la storia di nove anni fa, quando era un altro governo, quello di Silvio Berlusconi, a siglare con Cisl, Uil e associazioni imprenditoriali (cooperative comprese) il “Patto per l’Italia”, contro il quale Sergio Cofferati condusse una lunga lotta senza quartiere.

    Ma già con il progetto riformistico del Patto per l’Italia promosso da un governo di centrodestra non si era, però, al primo tentativo di derogare dagli aspetti di maggiore rigidità dell’articolo 18: il primo a proporre un disegno di legge con queste caratteristiche era stato il senatore Franco Debenedetti, eletto nelle liste dei Democratici di sinistra, che aveva tradotto in articolato le proposte contenute in un saggio di Pietro Ichino, giuslavorista anch’egli di sinistra. Non c’erano state solo proposte individuali: il governo di Massimo D’Alema aveva presentato nel 1998 una bozza di “Patto per l’occupazione e lo sviluppo” che, all’articolo 34, prevedeva il superamento dell’articolo 18 per i lavoratori alla prima esperienza di contratto a tempo indeterminato, fino a compimento del trentaduesimo anno di età, per tutti i lavoratori assunti entro il 1999 nelle regioni meridionali, oltre che per tutti i dipendenti con anzianità di lavoro inferiore ai due anni. L’assassinio per mano delle Brigate rosse di Massimo D’Antona, consulente del ministro del Lavoro Antonio Bassolino che aveva fornito la base culturale della riforma, bloccò tutto, indusse il ministro a tornarsene a Napoli e ad abbandonare precipitosamente il progetto riformista.

    Per contrastare il referendum indetto da Rifondazione comunista e dalla Fiom, che intendeva estendere a tutte le imprese, comprese quelle con meno di 15 dipendenti, le rigidità dell’articolo 18, l’Ulivo ideò uno Statuto dei lavori che, in merito all’articolo 18, stabilisse che fosse il giudice a scegliere tra indennizzo e reintegro. Il referendum, che si svolse nel 1993, raccolse solo un quarto dei votanti, la percentuale più bassa della storia referendaria (il referendum radicale che invece chiedeva l’abrogazione dell’articolo 18 aveva ottenuto la partecipazione di un terzo degli aventi diritto), a dimostrazione che il clima generale ormai era orientato in tutt’altra direzione.

    Contemporaneamente si era svolta l’iniziativa – in realtà parallela a quella della sinistra moderata ma interpretata dall’opinione pubblica come assolutamente divergente – del centrodestra sulla flessibilità del mercato del lavoro, che aveva avuto inizio a Milano. Nel 1999 l’Amministrazione comunale ambrosiana aveva proposto un “Patto per Milano”, che prevedeva deroghe dall’articolo 18 per i nuovi assunti, allo scopo di intaccare il serbatoio del lavoro nero. La Cisl e la Uil lo avevano accettato, entrando in un apposito comitato di concertazione che aveva il compito di gestire l’accordo, mentre la Cgil per bocca del segretario generale Sergio Cofferati osservava sarcasticamente che “il comune di Milano immagina un sistema di regole e tutele più basse di quelle di Agrigento”.

    Sul piano nazionale la spinta riformista del centrodestra nacque dall’incontro tra il nuovo presidente di Confindustria, il napoletano Antonio D’Amato, e il milanesissimo Silvio Berlusconi. Nel convegno industriale di Parma del marzo 2001, alla vigilia delle elezioni politiche, D’Amato presentò un programma di “Azioni per la competitività” che partiva dal presupposto che “la rigidità della struttura sociale ci rende un paese refrattario al cambiamento”. In contraddittorio col suo antagonista elettorale Francesco Rutelli, Berlusconi parlò di un lavoro comune, “voi nelle imprese, noi nelle aule parlamentari” sulla base di una comune concezione dei problemi nazionali. Fu subissato di applausi.

    Il nuovo governo pubblicò, sei mesi dopo il suo insediamento, il “Libro bianco sul mercato del lavoro”, steso con la collaborazione essenziale di Marco Biagi, che sarebbe caduto anch’egli vittima del terrorismo, e chiese una delega per legiferare in materia. La richiesta di delega fu un passo falso, anche la Cisl, che aveva apprezzato l’impostazione del libro bianco, si oppose alla delega che escludeva la concertazione e aderì alle proteste indette dalla Cgil, compreso uno sciopero generale che sarebbe stato per lungo tempo l’ultimo proclamato unitariamente. Dopo lo sciopero, il governo rinunciò a chiedere la delega e convocò le confederazioni, aprendo trattative su una serie di argomenti connessi. La Cgil pose la pregiudiziale della rinuncia a intervenire sull’articolo 18 e, dopo il rifiuto, non partecipò al negoziato, mentre le altre rappresentanze alla fine sottoscrissero il Patto per l’Italia, che conteneva una modesta deroga all’articolo 18, che non si sarebbe applicato ai nuovi assunti di aziende che superassero i 15 dipendenti, per un periodo sperimentale di tre anni. In realtà questo meccanismo non è mai stato messo in atto e quindi, per intervenire effettivamente sull’articolo 18 si è dovuto attendere quasi un altro decennio e l’entrata in campo del governo “tecnico”.

    Dalla rievocazione della vicenda tuttavia appare evidente che il merito principale della creazione di un clima e di una cultura dell’innovazione e della flessibilità spetta alla spinta impressa in due decenni da Berlusconi, che ha avuto in questa materia una posizione coerente, mentre la sinistra riformista, che pure aveva contribuito ad avviare questo processo, si è poi impantanata in contraddizioni intestine che ne hanno reso inefficace l’azione.
    Anche l’ultimo atto politico significativo del governo Berlusconi, la risposta alla lettera della Banca centrale europea che chiedeva riforme incisive anche sul terreno della flessibilità del mercato del lavoro, testimonia di questo impegno costante. Com’è noto le obiezioni della Lega nord, soprattutto in tema previdenziale, ha paralizzato la capacità operativa dell’esecutivo, il che ha indotto il capo dello stato a proporre una tregua politica gestita da un governo tecnico, con l’obiettivo di dare seguito concreto agli impegni assunti dal governo Berlusconi con la Bce.
    Da questo punto di vista appare incomprensibile l’atteggiamento assunto dal Partito democratico, che ha sostenuto l’iniziativa di Mario Monti, la cui base programmatica esplicita erano le riforme concordate con la Bce, che in cambio ha operato in modo efficace per contrastare le colossali spinte che puntavano a penalizzare il debito sovrano italiano. Contrariamente a quel che dice ora Pier Luigi Bersani, proprio questi erano “i patti”. D’altra parte il problema politico di fondo consiste nella incapacità della sinistra moderata italiana di tenere botta sulle scelte difficili quando queste sono contestate da settori sindacali egemonizzati da spinte antagoniste. Sono finiti così i tentativi messi in cantiere da Massimo D’Alema, da Bassolino e da Tiziano Treu e ora rischia di crollare il sostegno del Pd al governo Monti, o addirittura di saltare l’unità del partito. Se si guarda in una prospettiva più ampia nel tempo e nello spazio emerge la straordinaria ideologizzazione che hanno subito, nella sinistra italiana e solo in quella italiana, le tematiche del diritto del lavoro.

    La dignità del lavoro e la libertà di organizzazione sindacale, che sono principi democratici universali, sono considerate storicamente nel nostro paese beni non garantiti dalla dialettica sociale in un quadro di libertà generale, e questo ha portato a una serie di azioni che hanno puntato a imporle per legge, in contrasto con la libertà d’impresa, già in tempi lontani, quando il movimento bracciantile della Valle padana ottenne da Giovanni Giolitti l’imponibile di mano d’opera. L’idea che l’occupazione sia “imposta” dallo stato, invece di essere una risorsa essenziale dell’impresa e della produzione, prelude a una concezione della vita aziendale perennemente caratterizzata dal conflitto e dall’esistenza in fabbrica di un “potere sindacale” che compete con quello dell’impresa. L’ala riformista del movimento operaio ha interpretato questa coesistenza di poteri come premessa a forme di collaborazione, quella antagonista come base del conflitto permanente, e lo Statuto del 1970 rappresentava un compromesso tra queste tendenze. Cofferati, quando ha scatenato la lotta generale contro la riforma del mercato del lavoro, era sinceramente convinto di muoversi nell’ambito di una visione riformistica, di una difesa di diritti sui quali si poteva costruire una collaborazione sociale. Forse anche Susanna Camusso la pensa nello stesso modo. Il fatto che l’occupazione “imposta” è destinata a decrescere, che la tutela del lavoro non può essere a carico delle singole aziende, che in questo modo perdono competitività e finiscono con l’entrare in una situazione stagnante, ha convinto la sinistra moderata europea, anche quella sindacale, a riconoscere le esigenze di flessibilità del lavoro come condizioni per la difesa dei livelli di occupazione, in base a un ragionamento pragmatico e realistico. In Italia, in settori ancora assai rilevanti dell’opinione di sinistra, resta prevalente invece una concezione ideologica del diritto del lavoro, che si basa sull’idea di un’autorità dello stato che interviene per condizionare la miscela dei fattori produttivi a garanzia del soggetto “debole”, cioè del lavoro. Così il lavoro però è diventato sempre più debole, perché la sua forza contrattuale reale nasce dalla funzione indispensabile che esercita nella produzione di beni o servizi, nella sua qualità professionale, insomma nel suo valore reale e non in quello fittizio imposto per legge. Ora si torna a legiferare sulla base del principio che il lavoro è competitivo solo in un sistema produttivo competitivo e questo è il risultato di una lunga battaglia culturale, tutt’altro che conclusa.