Lo scandalo vero è il presidente comunista “riformista”

Stefano Cingolani

Per la Stampa, istituzionale come sempre, Giorgio Napolitano è “uno sprone”. Per il sobrio Corriere della Sera, “un supporto”. La Repubblica, non sapendo più che pesci pigliare, sorvola: questa volta niente titoli su “moniti” e reprimende. Persino l’editoriale di Massimo Giannini, il quale paragona lo “strappo” sull’articolo 18 addirittura al conflitto di lady Thatcher con i minatori, pur riconoscendo le ragioni di tutti (a cominciare, ça va sans dire, da quelle di Susanna Camusso), evita di citare il presidente.

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    Per la Stampa, istituzionale come sempre, Giorgio Napolitano è “uno sprone”. Per il sobrio Corriere della Sera, “un supporto”. La Repubblica, non sapendo più che pesci pigliare, sorvola: questa volta niente titoli su “moniti” e reprimende. Persino l’editoriale di Massimo Giannini, il quale paragona lo “strappo” sull’articolo 18 addirittura al conflitto di lady Thatcher con i minatori, pur riconoscendo le ragioni di tutti (a cominciare, ça va sans dire, da quelle di Susanna Camusso), evita di citare il presidente. Marco Travaglio lo definisce “Il finto tonto” in una colonna sul Fatto quotidiano tutta interrogativi retorici. Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista, lo attacca: “Negli ultimi due giorni, è sceso pesantemente dentro l’arena politica sostenendo una posizione politica. Io penso sia sbagliato per il suo ruolo”. Il manifesto gli contrappone l’eroe positivo: Sergio Cofferati e l’eroica giornata del 23 marzo con la mega manifestazione al Circo Massimo in difesa dell’articolo 18. La vera pietra dello scandalo, insomma, è ormai Napolitano. Lui non si fa tirare per il doppiopetto, anche se ieri ha assunto un tono conciliante invitando a considerare che “la riforma del mercato del lavoro non è solo l’articolo 18”. Mentre il direttivo della Cgil decideva una serie di scioperi a raffica in vista di un futuro sciopero generale, ha chiesto “misura nel giudizio da parte di tutti”, ma ha ribadito un punto che non va giù ai cigiellini: “Dopo che il governo avrà dato forma legislativa ai provvedimenti, la parola passerà al Parlamento”. Poi in serata, da Vernazza, è tornato sul “dovere morale di abbattere il debito pubblico”. E ha alzato i toni: “Dobbiamo capirlo tutti!”.

    Dall’alto del Quirinale, ormai, il presidente lancia giudizi di merito, allo scopo di spingere il governo ad andare fino in fondo. Prima ha avvertito i sindacati (la Cgil innanzitutto), chiedendo di rinunciare “a qualsiasi calcolo o interesse particolare”, cioè secondo Travaglio ad aderire alla “inedita formula del prendere o prendere”. Poi ha messo Pier Luigi Bersani di fronte a un’alternativa drammatica, anche a costo di provocare una spaccatura netta nel Partito democratico: “Sarebbe grave la mancanza di un accordo al quale le parti sociali devono dare solidalmente il loro contributo”, ha detto Napolitano. Invece, così non è stato.

    Rosy Bindi martedì sera a “Ballarò” appariva nettamente in difficoltà, le era impossibile approvare e avrebbe volentieri disapprovato, stava con la Camusso (anche se ha tenuto a ricordare che lei era iscritta alla Cisl ai tempi della sua militanza scudocrociata). E tuttavia si rendeva conto del terremoto politico che avrebbe provocato il suo no, quello del presidente del Pd. Tanto più che sarebbe stato un no a Napolitano, co-pilota di questo viaggio oltre le colonne d’Ercole della sinistra (comunista e socialdemocratica), ma anche della concertazione cattolica, della politica dei redditi e della programmazione democratica. Al di là persino di se stesso. Il capo dello stato si sta togliendo dei sassoloni dalle scarpe. Non è per natura un picconatore alla Francesco Cossiga, piuttosto un cauto costruttore di ponti. Ma per un tempo infinito, la sinistra ortodossa e poi quella radicale che dopo il 1968 ha assunto un peso sempre più grande, culturalmente egemonico, lo hanno fatto masticare amaro.

    Il catalogo è lungo quasi come quello di Leporello. Risale in fondo agli anni 60, al giudizio sul Partito socialista “nella stanza dei bottoni” e sulle riforme del centrosinistra, definite “di struttura” per non essere accusati di “riformismo e deviazionismo”, ma alla fine, sotto l’ipocrisia semantica, sempre la stessa zuppa.
    A metà degli anni 70 ci fu l’unità nazionale e il “programma a medio termine” scritto insieme a fior fiori di professori (Luigi Spaventa per esempio), eppure rimasto spiazzato dall’austerità berlingueriana che, letta da Pietro Ingrao come nuovo modo di vivere e lavorare, conquistava i cuori della base e le menti dei vertici. L’accordo sulla scala mobile sottoscritto da Luciano Lama e Gianni Agnelli (ma sconfessato dagli economisti ascoltati da Napolitano come Franco Modigliani e il giovane Tommaso Padoa-Schioppa), veniva interpretato quale premessa per un “patto dei produttori” inviso alla maggioranza del Pci. Lo scontro alla Fiat del 1980 e le dichiarazioni di Enrico Berlinguer ai cancelli di Mirafiori, con tanto di appoggio a una eventuale occupazione della fabbrica, erano fiele puro per i miglioristi. 

    Non parliamo dell’epica quanto inutile battaglia sul decreto di San Valentino con il quale il governo guidato da Bettino Craxi congelò la contingenza e abolì il punto unico, pilastro dell’accordo di dieci anni prima. Mentre Gerardo Chiaromonte, responsabile economico del partito, si affannava a cercare una via d’uscita trattativista, sostenuto da Napolitano, il segretario del Pci e il suo vice Alessandro Natta erano per il rifiuto in blocco, fino ad arrivare al referendum che costò simbolicamente la vita a Berlinguer e segnò una sconfitta rovinosa, aprendo le porte dell’inferno per “la via italiana al socialismo”, cinque anni prima che cadesse il Muro di Berlino. Persino Lama (eretico forse, ma pur sempre comunista) si allineò spaccando la Cgil e mettendosi contro il suo vice, il socialista Ottaviano Del Turco. La vicenda s’incrociava con il giudizio sul craxismo, del tutto negativo per Berlinguer e la sua “questione morale”, quanto meno ambiguo se non favorevole, per la destra del Pci.

    La geremiade dei magoni potrebbe continuare con il giustizialismo di Mani pulite, la “gioiosa macchina da guerra” occhettiana, fino all’anti berlusconismo come raison d’etre dell’opposizione. Dunque, Napolitano e con lui i “miglioristi”, avevano visto un po’ più in là degli ortodossi da una parte e dei gauchisti dall’altra. Anche se non erano mai stati in grado di affermare il proprio punto di vista con un confronto in campo aperto, a differenza dal loro leader carismatico, Giorgio Amendola, battagliero, umorale, con il gusto della provocazione e della sincerità. I bocconi indigesti, così, venivano digeriti in omaggio al “rinnovamento nella continuità” di togliattiana memoria che privilegiava l’unità del partito, salvo poi perdere pezzi a destra e a sinistra. Si prendevano spesso le distanze, è vero, ma sempre “nelle sedi opportune”, raramente in pubblico o votando contro.
    Finché il Sommo Colle adesso ha fatto emergere quel che prima restava nascosto nei recessi dell’animo. Tutto passa, tutto cambia.