Il triangolo delle élite

Salvatore Merlo

Nel volto di Vincenzo La Via, ormai ex direttore finanziario della Banca mondiale e da ieri direttore generale del Tesoro, si scorge la sconfitta politica di Vittorio Grilli. Il viceministro dell’Economia, quando ormai era apparso inevitabile che quella casella così importante al Tesoro non potesse più restare scoperta come forse avrebbe preferito lui, aveva tentato di orientare Mario Monti sul più amichevole Alberto Giovannini, banchiere, ex professore della Columbia University, alla guida negli anni Novanta di un controverso fondo speculativo (Ltcm) fallito nel 1998.

    Nel volto di Vincenzo La Via, ormai ex direttore finanziario della Banca mondiale e da ieri direttore generale del Tesoro, si scorge la sconfitta politica di Vittorio Grilli. Il viceministro dell’Economia, quando ormai era apparso inevitabile che quella casella così importante al Tesoro non potesse più restare scoperta come forse avrebbe preferito lui, aveva tentato di orientare Mario Monti sul più amichevole Alberto Giovannini, banchiere, ex professore della Columbia University, alla guida negli anni Novanta di un controverso fondo speculativo (Ltcm) fallito nel 1998.

    La Via, da neo direttore generale del Tesoro, con il suo piglio autonomo, il suo curriculum stellare e le sue entrature internazionali, incarna alla perfezione tutti i timori che sin dall’inizio Grilli aveva manifestato a Monti, sin da quando fu insistentemente persuaso dal presidente del Consiglio a entrare nel nuovo governo. Gli fa ombra. Un forte direttore generale del Tesoro, che controlla la macchina del ministero, quasi annulla il ruolo del viceministro. Lo scioglimento dell’impasse al Tesoro è l’effetto di un lavoro ai fianchi del governo, fatto di pressioni dirette e indirette all’ombra delle quali i maliziosi non hanno fatto fatica a scorgere il sorriso disteso di Mario Draghi, il governatore della Banca centrale europea. E’ la politica, niente affatto morta, che si affaccia prepotente nel cielo apparentemente esoterico della tecnocrazia.

    Dunque ieri, dopo quattro mesi, Monti ha designato La Via all’incarico lasciato scoperto da Grilli (transitato al governo), e che tanto aveva provocato le punzecchiature, tra gli altri, del professor Francesco Giavazzi, l’editorialista del Corriere della Sera, collega e amico di Draghi; due uomini che come ha raccontato Domenico Siniscalco a Marco Ferrante, sul Foglio, sono considerati una solida coppia modello per una intera generazione di economisti italiani: “Insieme a Mario Draghi, Giavazzi è il primo a studiare in America, a metà degli anni Settanta”. Adesso la nomina del nuovo direttore generale pareggia un conto aperto tra Draghi e Grilli, ma è soltanto un capitolo – probabilmente non l’ultimo – di uno scontro politico, e personale, ai massimi livelli che viene da lontano, dalle lotte per la successione alla Banca d’Italia e alla Bce, e che le meccaniche della tecnocrazia adesso al potere in Italia hanno semplicemente riacceso. Per Monti è un problema in più. Da ieri è a rischio il delicatissimo equilibrio che il professore era riuscito a costruire all’interno del suo governo, nella cabina di regia economica, e nei rapporti altalenanti tra questa e la Banca centrale europea guidata da Draghi.

    E’ nei giorni di tutte le paure, mentre i mercati mondiali da Francoforte a Wall Street si avvitano disperatamente al ribasso, che Mario Monti, da poco designato presidente del Consiglio da Giorgio Napolitano stabilisce un equilibrio fragile, ma obbligato, nel cuore del suo nascente governo. Tra il 14 e il 17 novembre 2011 il professor Monti, al Quirinale, con il presidente della Repubblica, allarga le braccia, si arrende. Silvio Berlusconi e Pier Luigi Bersani hanno ancora lo sguardo troppo acceso da vent’anni di guerra civile fredda per potersi abbracciare all’improvviso. I partiti sosterranno il governo ma non entreranno nel governo, i gran ciambellani del centrodestra e del centrosinistra, Gianni Letta e Giuliano Amato, che pure avrebbero voluto, non saranno vicepresidenti del Consiglio. All’alba del 16 novembre l’esecutivo tecnico non è ancora nato ma già appare debole. Così è in poche ore che Monti, per rendersi più solido e contemporaneamente agile, disegna non senza difficoltà assieme a Napolitano (e Draghi, continuamente al telefono) la nuova topografia in quei dedali sotterranei che collegano il ministero dell’Economia alla Banca d’Italia e alla Banca centrale europea.

    Il professore della Bocconi ha bisogno di sentirsi sicuro. E’ su un letto di politica che distende la decisione di assumere anche l’interim di ministro dell’Economia venendo meno a una vecchia regola predicata con ironia da Carlo Azeglio Ciampi: “Perché un interim sia davvero efficace deve durare al massimo un paio d’ore”. Il presidente del Consiglio incaricato ha bisogno di irrobustirsi, in Europa, dove il doppio incarico lo rende l’unico vero terminale dei rapporti politico-economici, e anche a Roma, nel cuore degli ingranaggi italiani. E’ per questo che corteggia allo sfinimento l’allora direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli, che di lasciare il prestigioso incarico per avventurarsi al governo non sembra avere troppa voglia. Con Monti, Grilli si schermisce, resiste, si lascia anche sfuggire di aver respinto le offerte dell’amico Giulio Tremonti nei giorni in cui l’ex ministro dell’Economia pensava sul serio fosse possibile sostituire in corsa Berlusconi alla presidenza del Consiglio e agguantare per sé, con l’appoggio di Umberto Bossi, la corona di premier e la toga di salvatore dell’Italia. “Vittorio”, diceva Tremonti a Grilli, “tu vieni a fare il mio ministro dell’Economia”.

     Ma il professor Monti quando vuole è tignoso, tanto più dopo il forfait di Letta e Amato: ha bisogno di Grilli, che siede al tavolo tecnico del Fondo monetario internazionale, che conosce – ed è conosciuto – nei gangli del potere economico europeo e che, soprattutto, a Roma è una cosa sola, fa squadra da anni, con il ragioniere centrale dello stato, Mario Canzio e con il capo di gabinetto del Tesoro Vicenzo Fortunato. Monti vuole tutto il gruppo di fuoco che fu di Tremonti. Lo vuole fortissimamente. E con Grilli si lascia andare, promette persino quello che in cuor suo sa di non poter concedere: “Vieni a fare il viceministro, per ora. Chiusa la prima fase, quella dell’emergenza, ti cederò il ministero dell’Economia”. Grilli accetta. Ma perché il nuovo viceministro non sia debole, con Monti viene stretto un accordo che nessuno mai confermerà (e che ieri è venuto meno dopo le pressioni del mondo che ruota attorno a Draghi, che non lo ama): la direzione generale del Tesoro dovrà restare vacante fino a che Monti non lascerà l’interim all’Economia. Un direttore generale del Tesoro forte fa ombra a un semplice viceministro. Lo annulla. Ed è in questa scomoda postura che, dopo la nomina di La Via alla direzione generale del Tesoro, si trova da ieri Grilli; al quale peraltro non sfugge che Monti non ha intenzione di cedere il suo interim. Il premier, nelle ultime settimane, ha notato una “speciale concordia d’intenti” tra il suo viceministro e il superministro dello Sviluppo, Corrado Passera. Insieme sono già un asse formidabile. Se Grilli diventasse anche lui ministro, la coppia diventerebbe incoercibile. Persino per Monti. Che peraltro è un accentratore per diffidenza, si fida solo di Piero Giarda e di Enzo Moavero Milanesi.
    Quel giorno di novembre 2011, scegliendo Grilli, Monti ha voluto marcare una distanza e lanciare un segnale a Draghi, che è, sì, socio dell’operazione tecnocratica, ma che appartiene anche a un mondo lontano (la finanza internazionale delle grandi banche d’affari americane), un ambiente storicamente in conflitto con quello istituzionale, burocratico, rigorista e filotedesco del professor Monti. Non ci si deve sorprendere infatti se Angela Merkel, il cancelliere tedesco che ha sostenuto Monti anche in una famosa telefonata con Napolitano (Berlusconi ancora regnante), a maggio del 2011 si oppose alla nomina di Draghi alla Bce. Tutto il salotto tedesco, compreso Tremonti, e ovviamente Grilli, per mesi avevano tentato (senza successo) di fermare l’ascesa di Draghi anche con le più varie allusioni al suo ruolo, ai tempi in cui lavorava per Goldman Sachs, nella codificazione dei famigerati derivati del debito greco. Per Tremonti Grilli è un tecnico capace di stare “al posto suo”, lo è anche per temperamento, per carattere; mentre Draghi è il paradigma di quelle élite tecnocratiche che non sono legittimate dal consenso politico e che – dal punto di vista tremontiano – vogliono il potere senza la responsabilità. E infatti quando Monti sceglie Grilli lo fa malgrado molte cose: malgrado Draghi non lo abbia in simpatia da almeno vent’anni, come si vedrà; e malgrado Berlusconi (e tutto il Pdl) diffidi degli uomini ex “tremontiani” (Grilli e Canzio e Fortunato) che, come dice l’ex ministro Altero Matteoli, “per noi non trovavano mai i soldi necessari a governare. Quelli stessi denari che ora per Monti ci sono”. Draghi, regista dell’operazione montiana alla pari con Napolitano, è in conflitto con Grilli sin dai tempi in cui, guidati da Ciampi, erano entrambi alla Banca d’Italia. “Draghi che gli era superiore lo avrebbe fatto fuori già allora, ma Ciampi lo proteggeva”. La stampa italiana ha molto ricamato in passato sulla conflittualità fra Tremonti e Draghi, ma gli amici di Tremonti ora sorridono e dicono che “ad alimentare i contrasti, alle spalle di Tremonti, c’era sempre Grilli”. E ricordano “la guerra di Bankitalia”. Quando Monti insiste con Grilli per inserirlo al governo, lui è appena uscito sconfitto da uno scontro violentissimo per lo scranno di governatore. Draghi, che ha un suo candidato, Fabrizio Saccomanni, ha schierato contro Grilli tutta la sua forza interna all’istituto (di cui è ancora oggi governatore onorario, con segreteria). Scontro titanico con Tremonti, che per favorire la nomina di Grilli a un certo punto, non senza soffrire, aveva persino rinunciato a lavorare contro l’approdo di Draghi al vertice della Bce, pensando di poterla chiudere così. E invece no, governatore ci diventa Ignazio Visco. Una via di mezzo. Da ieri Grilli ha perso anche le leve del Tesoro, dopo la nomina del direttore generale. Draghi è forse più saldo, ha vinto ancora lui. Fino alla prossima battaglia.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.