Calcio in default. Così la Svizzera è diventata la Grecia del pallone
Il Servette ha ancora un mese di vita. Poi? Poi deciderà Fabienne Geisinger, giudice del tribunale di Ginevra. Salvezza o fallimento. La data è il 19 aprile. Fino ad allora il giudice si guarderà i libri contabili del club pallonaro di Ginevra, compreso l’atto di trasferimento tra il vecchio proprietario, Majid Pishyar, e il canadese Hugues Quennec che ha comprato la squadra qualche tempo fa sperando di farla sopravvivere.
Il Servette ha ancora un mese di vita. Poi? Poi deciderà Fabienne Geisinger, giudice del tribunale di Ginevra. Salvezza o fallimento. La data è il 19 aprile. Fino ad allora il giudice si guarderà i libri contabili del club pallonaro di Ginevra, compreso l’atto di trasferimento tra il vecchio proprietario, Majid Pishyar, e il canadese Hugues Quennec che ha comprato la squadra qualche tempo fa sperando di farla sopravvivere. Senza volerlo e anche senza saperlo col Servette, Quennec s’è caricato il peso della credibilità dell’intero calcio svizzero. Poca cosa sportivamente, grande cosa simbolicamente. Perché il paese delle certezze, della solidità, del rigore, della ricchezza, delle banche, del cioccolato, degli orologi e di mille altri luoghi comuni eppure verissimi, è pieno di guai pallonari. Come l’inimmaginabile che si realizza: senza avere campioni milionari e senza avere follie particolari, il calcio è disastrato come nient’altro. Il Wall Street Journal s’è chiesto come mai e ha trovato una risposta. Disinteresse della società elvetica? Possibile. Così come è possibile che uno sport che non è il più praticato nella confederazione non abbia il sostegno della politica e della gente. Comunque siamo qui, sul ciglio di un precipizio che sembrava impossibile. In Svizzera non hanno ancora accettato che la compagnia aerea di bandiera sia andata in bancarotta dieci anni fa, ma non si preoccupano che il calcio sia all’ultimo giro. I simboli del disastro vestono la maglia amaranto del Servette. Perché non è la squadra più popolare e più vincente, ma è il club di Ginevra. Cioè del centro del centro. I giocatori che lo scorso weekend sono usciti dal campo senza sapere neanche se la settimana successiva avrebbero giocato, sono come i dipendenti di Lehman Brothers che escono dalla sede della banca con gli scatoloni in mano. E’ la punta di un fenomeno, di un’anomalia, di una degenerazione. Fallimenti, cause giudiziarie, penalizzazioni: la serie A svizzera (la Super league) ha dieci squadre e tre sono nei guai veri. Grossi. E’ il 33 per cento. E’ un’enormità. Il Servette rischia di sparire perché non ha soldi e non c’è un solo istituto di credito che per il momento abbia voglia di salvarlo davvero. Poi c’è il resto. C’è il Neuchâtel Xamax, che è già scomparso. Il club non gioca più da quasi due mesi: tutti i calciatori a casa, niente più stipendi e niente più mercato. Il 18 gennaio scorso, mentre i giocatori si preparavano per un’amichevole a Dubai contro la nazionale olimpica irachena, la lega calcio svizzera ha deciso di escludere la squadra dalla Super League. Il girone di ritorno del campionato, partito il 4 febbraio, si sta giocando con 11 partecipanti: 5 partite e una squadra che riposa. Ciao Xamax e ciao anche al pezzetto di storia che rappresenta con due scudetti vinti e 72 gare europee.
Dicono che la Lega abbia fatto di tutto per evitare la radiazione e che però non si potesse proprio fare di più: troppe le inadempienze finanziarie del nuovo proprietario Bulat Chagaev, che in poco più di sei mesi di presidenza è riuscito ad accumulare oltre 6 milioni di euro di debiti. Da ottobre, nessun impiegato del club (giocatori e tecnici compresi quindi) riceveva più il proprio stipendio. Basta? No, ovviamente. L’imprenditore ceceno è accusato di aver fornito una falsa garanzia bancaria e di aver fatto sottoscrivere doppi contratti ad alcuni giocatori e allenatori. E’ partito un procedimento penale, Chagaev è stato arrestato alla fine di gennaio. Diceva di avere beni e liquidità per 38 milioni di dollari depositati in Bank of America. Parole. Soldi zero. Fatti tanti, anche troppi. Dal 5 maggio scorso, quando prese il club da Sylvio Bernasconi, Chagaev ha licenziato quattro allenatori, ha cambiato due volte il proprio staff dirigenziale e ha minacciato più volte i giocatori. Cominciando dalla finale della Coppa svizzera, fine maggio, quando alla pausa fra primo e secondo tempo, entrò negli spogliatoi della propria squadra (che perdeva 2-0 dal Sion) gridando “I’ll kill you all” ai giocatori. Poi ad agosto, dopo un pareggio casalingo col Losanna, entrò con guardie del corpo armate negli spogliatoi a fine gara. I suoi guardaspalle lo fermarono un secondo prima che picchiasse l’allenatore Joaquin Caparros, che però fu licenziato per essere sostituito dall’ex-sampdoriano Victor Munoz. Prima del fallimento, Chagaev si è anche separato da tutti gli sponsor del club. Parlava di milioni, sì. Sempre quei 38 milioni di dollari della Bank of America. “Io ho una fortuna”, diceva ai giornali, aggiungendo di essere un intimo amico del presidente cececo Ramzan Kadyrov. Peccato che non fosse un né garanzia di onestà intellettuale e reale, né tantomeno di solidità finanziaria. Ad agosto, tre mesi dopo aver comprato lo Xamax, Kadyrov lo ha buttato fuori dal Terek Grozny, di cui era vicepresidente, per inadempienze finanziarie. Buchi su buchi, in sostanza. Buchi riempiti sempre e soltanto di provocazioni: attacchi ai giornali, agli ex dirigenti, agli ex dipendenti, a chiunque osasse criticarlo. La Lega avrebbe anche voluto salvare il Neuchatel, ma come? Fuori dal campionato e fuori anche dal tempo: ripartirà dai dilettanti, come una squadra italiana qualsiasi.
Servette, Xamax, poi il Sion. Altra storia da imbarazzo collettivo, per la Svizzera. Ha fatto 39 punti sul campo, sarebbe potenzialmente secondo in campionato, invece è nono, cioè ultimo, visto che il Neuchâtel non gioca più. I punti ufficiali sono tre perché la federazione ha punito il club con un meno 36. La storia è complicata e comincia nel 2008: il Sion ingaggia un portiere egiziano che però risulta essere ancora sotto contratto col vecchio club. La Fifa condanna gli svizzeri a due periodi di divieto di trasferimenti per il tesseramento irregolare. Il presidente e proprietario del club, Christian Constantin, architetto con una fortuna stimata attorno ai due miliardi di euro, comincia la battaglia: si rivolge alla magistratura ordinaria, violando la clausola compromissoria, amatissima dai capoccioni del calcio globale di Uefa e Fifa, che esclude il ricorso ai tribunali ordinari per questioni sportive. Eccola là, un’altra storia alla Jean Marc Bosman, il calciatore belga che ha stravolto le regole del calcio europeo a metà degli anni Novanta. Qui, però, la partita politica è anche tutta una cosa interna alla Svizzera: la guerra di Constantin è contro le due istituzioni più importanti del calcio globale, che però vivono e governano il mondo dalla Confederazione. Perché l’Uefa sta a Nyon e la Fifa sta a Zurigo.
Il caso Sion ha rischiato di far vacillare il presidente del calcio mondiale Joseph Blatter più di tutte le accuse di corruzione subite in vent’anni. Constantin ha trascinato davanti a un giudice il presidente dell’Uefa Michel Platini, e ha ingaggiato un duello lungo ed estenuante. Per dirne una: ha inviato una lettera al ministro delle Finanze svizzero chiedendo che venissero aboliti i privilegi fiscali goduti da Uefa e Fifa, cioè il motivo per cui le due organizzazioni hanno sede in Svizzera. Perché uno se lo chiede, no? Come mai il calcio mondiale è rappresentato da una nazione che ha lo sci come sport nazionale? La risposta sta nella provocazione caduta nel vuoto di Christian Constantin. Mister Sion ne è uscito come potenziale paladino di un ipotetico Occupy Football, ma è stato sconfitto dal sistema. Aveva torto, d’altronde. Nelle partite di Europa league di quest’anno aveva schierato sei giocatori che non avrebbe potuto neanche comprare. Ha vinto qualche tappa, ha perso clamorosamente la gara. Risultato: una valanga di quattrini spesi, la credibilità del pallone svizzero crollata sotto terra e meno trentasei punti. Uno per uno sono la condanna per la sua squadra a una retrocessione praticamente certa. Terzo caso di delirio da pallone in Svizzera. Non c’entrano crac finanziari, non per il momento. Però non è detto: nel 2003, appena acquistato il Sion, Constantin fece subito ricorso contro l’esclusione della squadra dalla Challenge League (la B elvetica) per inadempienze finanziarie. Ottenne il reintegro quattro mesi dopo l’inizio del campionato, con stravolgimento dei calendari. Piaceva, l’architetto miliardario di Martigny. Piaceva al pubblico compassato e molto distratto dello sport svizzero. Sembrava un tipo interessante: vivace, eclettico, artistoide. Poi l’hanno conosciuto: in nove anni ha licenziato 23 allenatori e in un paio di occasioni ha voluto addirittura andare lui in panchina. Aveva il tesserino da allenatore? No, ovviamente. Altra regola stracciata per interesse personale e per egocentrismo. L’ha scampata allora, non adesso. Meno trentasei, la retrocessione, la figuraccia con il suo pubblico e con il resto del mondo. Il Sion ha avuto un momento di popolarità perché sembrava la sfida del piccolo contro il grande. Solo che funziona se il piccolo è pulito e sano e gioca contro il sistema. Non se vive dentro il sistema e s’insinua nei vuoti lasciati dalle norme. E’ finita male. Come per il Neuchâtel Xamax e come potrebbe accadere per il Servette. Storie diverse eppure uguali. Le tiene insieme la Svizzera che si vergogna un po’ di se stessa.
Il Foglio sportivo - in corpore sano