Ritratto di un niet
Che cosa c'è dietro il no di Camusso a Fornero
Non c’è un vero ultimo samurai, in questa storia di lavoro, tutela, contratti, ammortizzatori e articolo 18, anche se la sera in cui la riforma Monti-Fornero è stata illustrata Susanna Camusso, segretario generale Cgil, aveva l’aria del soldato irriducibile barricato dietro al proprio stesso volto – la voce quasi non le usciva, mentre ripeteva “così si toglie la funzione deterrente dell’articolo 18”, e gli occhi azzurri di ghiaccio neppure si sollevavano.
Non c’è un vero ultimo samurai, in questa storia di lavoro, tutela, contratti, ammortizzatori e articolo 18, anche se la sera in cui la riforma Monti-Fornero è stata illustrata Susanna Camusso, segretario generale Cgil, aveva l’aria del soldato irriducibile barricato dietro al proprio stesso volto – la voce quasi non le usciva, mentre ripeteva “così si toglie la funzione deterrente dell’articolo 18”, e gli occhi azzurri di ghiaccio neppure si sollevavano. Non c’è, in questa storia, come nell’“Ultimo Samurai” di Edward Zwick, un Tom Cruise che da americano moderno e tecnologico (per l’Ottocento) prima combatte e poi sposa l’antica cultura giapponese ormai minoritaria, voltando la testa rispetto al mondo che, nel bene e nel male, procede in direzione opposta. Susanna Camusso, anche volendo, non può essere, oggi, il samurai Katsumoto, quello che nel film resiste fino all’ultimo ai fucili con la spada, pur sapendo di andare incontro alla sconfitta sul campo. Perché Susanna Camusso, nel gioco di relativa modernizzazione, seppure via percorso concertativo-consociativo, è già entrata, e non da oggi: si era in maniche di camicia, era il 28 giugno 2011, giorno dell’accordo tra Confindustria e sindacati sulla contrattazione. Ancora non era nell’aria Mario Monti, ancora c’era sullo sfondo, per Marcegaglia e Camusso, un governo Berlusconi cui appendere l’emergenza da “paese nel baratro” (parole loro, di tutte e due). Piovevano photo opportunity delle due leader sorridenti e pronte a stringersi la mano. La Fiom ribolliva, ma Camusso procedeva, applaudita da larga parte del Pd. “Riformista”, appariva la leader Cgil di provenienza socialista lombardiana ai moderati di centrosinistra, e fin troppo riformista all’opposizione interna metalmeccanica, quella che di solito, per dirla con Giorgio Cremaschi, chiama “controriforme” le riforme. E oggi il direttore dell’Unità Claudio Sardo, difendendo Camusso nel suo “no” alla riforma Monti (anche se il “no” non è così netto sulle altre parti del pacchetto, quelle che non riguardano l’articolo 18), ne difende pure “il riformismo”: “Camusso è stata molto coraggiosa con gli accordi di giugno, e in generale è proiettata verso una politica di patto sociale”, dice Sardo, “ma oggi non poteva fare diversamente, non poteva esimersi dal dire no di fronte a una soluzione non equilibrata e alla vera e propria rottura effettuata dal governo Monti, che poteva incassare un accordo generale sul modello tedesco e invece ha preferito strappare, per portare lo scalpo dell’articolo 18”. Il direttore dell’Unità rimembra i tempi dell’unanimismo sulla scala mobile (nel ’93, sotto Carlo Azeglio Ciampi), non vede “un’evoluzione radicale in Susanna Camusso” o un suo appiattimento sulla Fiom, ed è convinto che il mancato accordo tra sindacati sia anche figlio della “storia recente dei loro rapporti sotto un altro governo”. “Anche i riformisti ogni tanto lottano, ci batteremo perché vengano modificate alcune norme previste dalla riforma”, dice infine Sardo mentre Camusso promette ore di sciopero guardando “al Parlamento tutto”, con improvviso ritrovato “ottimismo della volontà”, l’espressione preferita del segretario Cgil quando va da Fabio Fazio, a “Che tempo che fa” (“ottimismo della volontà” per pensare di poter uscire dalla crisi, diceva in febbraio, anche se “è cambiato il giudizio internazionale sull’Italia”, e “ottimismo della volontà” sulla possibile intesa delle parti sociali sulla riforma Monti).
Poi però l’intesa (totale) non c’è stata. Camusso non c’è stata. Non su tutto, anche se poi è passata l’immagine di lei che diceva “il giudizio della Cgil è unico e critico” mentre attorno franava il vecchio mondo consociativo persino nella forma: non più concertazione, ma un verbale montiano con la dissenting opinion registrata in calce. Camusso è rimasta sulla scena contro tutti (anche contro la fronda interna “massimalista” che vorrebbe il “ripristino” pari pari dell’articolo 18, mentre Camusso parla di “riconquista del reintegro”): maglione scuro chiuso fino al collo, jeans pesanti col risvolto, capelli perfettamente pettinati alla maniera antica, allure polverosa da dirigente russa dietro la cortina di ferro, corpo estraneo nella sala stampa asettica della presidenza del Consiglio, barriera anche fisica che fa la guardia all’antica norma di legge forse già superata nei fatti se non nel lessico (il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano interviene – “non stiamo parlando di licenziamenti facili” – mentre attorno prende piede la formula magica, il “modello tedesco” citato a piè sospinto dal segretario pd Pier Luigi Bersani come panacea universale contro la formula tabù della “libertà di licenziare”).
E’ uno strano cambio di scenario, questo, per la donna che era arrivata ai vertici Cgil con storia da funzionaria sindacale socialista, radici nella borghesia milanese e primi passi nel Movimento studentesco di Mario Capanna. Erano anni di studio alla facoltà di Archeologia, anni di impegno politico con sogno egualitario e alfabetizzazione di massa. Si parlava di centocinquanta ore e la giovane Susanna insegnava Storia dell’arte agli operai. Era una ragazza di bellezza teutonica, con una passione per la barca a vela coltivata fin da adolescente e fino all’estremo, fino al punto di sparire per ore lungo la costa ligure, con tanti saluti alle ansie delle sorelle maggiori e alle sfuriate del padre che non la vedeva tornare a ora di cena. Non si fanno le cose tanto per fare, in mare, non ci si muove senza aver ascoltato il bollettino, diceva Camusso qualche anno fa a chi le parlasse della sua vita marinara, ed erano le uniche regole in una prospettiva di libertà negli abissi, quella che Camusso inseguiva strappando permessi paterni per una barca sempre più grande, e poi andandosi a cacciare in Bretagna, d’estate, tra nuvole veloci e onde gelate, per vacanze-studio da adulta velista in via di perfezionamento, a suo agio con altri sconosciuti aspiranti marinai, otto sconosciuti assieme con acqua razionata e turni per i piatti, fornelli basculanti e notti silenziose al timone, a vedere se per caso non si scorgesse la lucina di un’altra barca all’orizzonte. Si dondola anche a forza cinque, raccontava volentieri Camusso quando ancora non era segretario ma solo astro nascente nei talk-show e sui giornali, al posto (e per conto) di Guglielmo Epifani. Si dondola a forza cinque, diceva Camusso, ma poi magari ti passano accanto i delfini. In mare si ricaricava, Camusso, in mare aveva messo sua figlia Alice bambina – un guscio di noce e l’incoscienza dell’infanzia per il primo incontro con vele e timone. In mare Camusso digeriva, arrotolando cime, lo scontro interno di metà anni Novanta, quello con l’ala dura Fiom di Claudio Sabattini, quello da cui uscì momentaneamente sconfitta (tornò al nord, restò alcuni anni in disparte a capo del settore agroalimentare del sindacato, riprese slancio con Sergio Cofferati, che pure aveva un diverso background dalla socialista Camusso).
Ottaviano Del Turco, ex segretario aggiunto alla Cgil in epoca Lama, conoscitore di lunga data del mondo sindacale, ex ministro delle Finanze, tra i fondatori del Pd, dice che “Camusso oggi è stata sconfitta senza battaglia all’interno della Cgil, dove, a dispetto dei numeri, ha vinto di fatto la linea di Maurizio Landini. Susanna non ha avuto tempo di irrobustire la sua leadership, ed è stata spiazzata dal fatto che stava finendo l’epoca del diritto di veto sindacale. Ora corre il rischio di isolarsi. Si è già visto in Grecia che il braccio di ferro rituale non funziona”. Certo è che la cosiddetta “linea Landini” è linea sindacale ma oggi anche linea politica, con sponde nel movimento dei sindaci alla Luigi De Magistris, sugli schermi di Michele Santoro, nelle parole di Sabina Guzzanti, sulle pagine del Fatto quotidiano. C’è una minoranza congressuale interna (di area Landini) e una maggioranza congressuale (di area Camusso), ma l’idea di un movimentismo anche mediatico si è diffusa in modo trasversale. Scherzo della sorte, questo, ché Camusso ha cominciato proprio alla Fiom, rara donna a occuparsi del settore automobilistico, fino a diventare caterpillar da trattativa ad alto livello, durante il lungo inverno di protesta dei primi anni Novanta, a monte e a valle della rottura e della ricucitura dei negoziati. Aveva trentasei anni, non aveva mai incontrato personalmente Cesare Romiti, ma le leggende narrano di un Romiti messo in soggezione dallo sguardo “no pasaran” della giovane dirigente.
Dunque oggi anche con il “landinismo” deve vedersela con il “riformismo” che l’Unità ancora scorge in Susanna Camusso. Giuliano Cazzola, ex sindacalista Cgil, ora deputato Pdl, dice che “in realtà Camusso aveva provato a cambiare rotta, nei mesi precedenti. Ma, di fronte alla pressione interna, ha scelto la mossa spregiudicata: isolare l’articolo 18. E questo nonostante la Cgil porti a casa molto da questa riforma, sia sul piano pratico sia sul piano culturale, a partire dalla mistica del ‘precariato’ da sconfiggere, tutto sacco del centrosinistra”. E’ così che Camusso arriva al tardo pomeriggio del 21 marzo, il giorno del direttivo Cgil, il day after dell’annuncio sulla riforma fatto da Mario Monti ed Elsa Fornero.
L’ascensore della sede centrale Cgil scarica al primo piano due uomini non alti e molto tondeggianti, uno baffuto, l’altro barbuto. Dalla scala accanto spuntano altri uomini con valigetta, con cartellina, a mani vuote. La donna che li accoglie senza sorriso, il segretario generale Susanna Camusso, si guarda intorno vigile, scruta i ritardatari della conferenza stampa e la punta delle proprie scarpe. Televisioni, fotografi, gente che si aspetta un botto mediatico della parte “sconfitta” si catapulta in corridoio, ma il botto non ci sarà: Camusso annuncerà lo sciopero ma dirà pure “mi rivolgo all’intero Parlamento” (sulla Stampa Fabio Martini, il 22 marzo, scrive: “Doveva essere il giorno del bunker”, ma poi “la socialista massimalista che guida la Cgil… distilla un liguaggio da vecchia Cgil, diverso da quello del leader della Fiom Maurizio Landini” e “ci tiene a spiegare che la sua è un’organizzazione tranquilla e rigorosa”, anche se “la partita non è chiusa”). “Non vogliamo vedere magliette con scritto ‘Fornero al cimitero’”, dice Camusso prima di alzare gli occhi di ghiaccio, pure quelli da funzionaria russa in un film sulla cortina di ferro – sarà che a indurre il paragone ci si mette l’argomento (il “niet” di Camusso della sera prima) ma forse pure l’ambientazione del palazzo Cgil, aria sovietica in architettura fascista. Per il resto il giorno del bunker diventa sarcasmo per Monti “che va in Asia” portando in giro il messaggio “che qui si può licenziare facilmente”; richiesta agli altri sindacati di formulare una proposta comune di modifica delle scelte governative; annuncio di sedici ore di sciopero e assemblee; sparute concessioni (“sui punti su cui si è potuto negoziare”, la riforma contiene “qualche elemento positivo”).
E’ il giorno del direttivo in cui si gioca un altro tiro alla fune tra Cgil e Fiom e Susanna Camusso comunque è a casa sua, nel palazzone di Corso Italia, tra sedie girevoli, voci roche, scalinate e stanze che conservano la memoria di infinite riunioni e infinite sigarette (di quando si poteva fumare). Ascolta gente in crocchio, commenta, annuisce quando le mostrano delle carte. Forse è roba di direttivo, forse sono agenzie stampa. Gli uomini tondeggianti si indirizzano verso un buffet essenziale di pasticcini da pomeriggio, acqua in bottiglia e succhi di frutta. La sera prima Camusso ha fatto una dichiarazione a voce bassa dalla presidenza del Consiglio, senza neanche guardare le telecamere, senza muovere i muscoli facciali, ripetendo varie volte il mantra “così si toglie la funzione deterrente dell’articolo 18”. Ma al direttivo ha un altro problema. Al sindacato raccontano di “uno spiazzante emendamento al documento Camusso sulla futura mobilitazione”, firmato dal segretario Fiom Maurizio Landini, minoranza interna, e da un esponente di pur tiepida maggioranza interna, Nicola Nicolosi. E’ l’emendamento in cui si chiede di scrivere “ripristinare l’articolo 18” al posto di “riconquistare il reintegro”. Un dirigente sindacale dice: “Questo a mio avviso vuol dire che non c’è appiattimento del segretario sulla Fiom, anzi. C’è volontà a priori di un’ala di differenziarsi da Camusso”. Di sicuro sono altri tempi da quando la Fiom regalava a Susanna Camusso soddisfazioni professionali e anche personali: fu a un’assemblea Fiom, negli anni Settanta, come ha raccontato la stessa Camusso alla giornalista Nunzia Penelope, che la futura dirigente sindacale rivide, seminascosto in fondo alla sala, il primo amore del liceo, allora cronista d’agenzia. Andò come di solito non va con i primi amori: si sposarono e fecero una figlia. Non religiosa (“non verrò mai folgorata sulla via di Damasco”, diceva qualche anno fa), il segretario Cgil ha convinto in seconda battuta le femministe che un tempo la consideravano troppo poco in prima linea con l’iniziativa laico-femminista “Usciamo dal silenzio”, all’indomani del referendum sulla fecondazione assistita. E oggi firma la prefazione del libro “O i figli o il lavoro” di Chiara Valentini, sulla “guerra silenziosa alla maternità” nelle aziende.
“Ognuno faccia il suo mestiere”, diceva Camusso a Walter Veltroni, quando lei non era ancora segretario generale della Cgil e lui era ancora segretario del Pd. Erano i giorni bui dell’intoppo Alitalia e Camusso, favorita per il dopo Epifani, mostrava di non gradire le frasi di Maurizio Sacconi sulla “complicità” tra imprese e lavoratori” (“complicità si usa per i reati, il sindacato costruisce accordi e mediazioni”). Parlava di crisi economica con grave espressione in volto, Camusso, facendo appunto il suo mestiere, ma ancora si mostrava rilassata come una qualsiasi professionista con famiglia tornata dalle vacanze con il braccialetto mediorientale al polso, di quelli con la catenella che si arrampica fino all’indice (lo portava anche durante le interviste, Camusso, come fosse un richiamo alla normalità del vivere, mantenuta con lettura di libri gialli e visione di film non deprimenti e non d’autore).
Doveva essere un biennio di luna di miele da neo segretario, questo, per Camusso. E per un pezzo lo è stato: il bau-bau berlusconiano al governo copriva le magagne interne al centrosinistra, gli accordi di giugno portavano sponde partitiche, le tv si contendevano il segretario donna che litigava sul Primo maggio (no ai negozi aperti) con il sindaco di Firenze Matteo Renzi. Poi è cambiato tutto: governo Monti, un altro mondo che piove addosso. Dice una giornalista che conosce il segretario generale Cgil da molti anni: “Susanna Camusso è sempre stata una persona gioiosa, aperta al futuro. Ora anche fisicamente appare ripiegata, esprime con la postura tensione, angoscia. Eppure, secondo me, una chance ce l’aveva: fare come Bruno Trentin nel ’92, ai tempi dell’accordo che eliminava la scala mobile: firmare e poi dimettersi. Dopodiché le sue dimissioni potevano anche essere respinte”. Invece Camusso presidia il presunto paradiso perduto, anche se ormai è tardi per fare l’ultimo samurai.
Il Foglio sportivo - in corpore sano