Un cuore rosa dà un tocco pop alla campagna contro Israele

Paola Peduzzi

L’ultima trovata è tutta rosa, con un grande cuore, vive su Facebook ed è già un must: “Iraniani, non bombarderemo mai il vostro paese, vi vogliamo bene”. L’iniziativa “Israel loves Iran” è di una coppia di israeliani e in due giorni ha già raccolto migliaia di adesioni, al grido “non ho paura di te, non ti odio, non so nemmeno chi sei, non mi hai mai fatto del male”, andiamo a prenderci un caffè e a parlare di sport.

    L’ultima trovata è tutta rosa, con un grande cuore, vive su Facebook ed è già un must: “Iraniani, non bombarderemo mai il vostro paese, vi vogliamo bene”. L’iniziativa “Israel loves Iran” è di una coppia di israeliani e in due giorni ha già raccolto migliaia di adesioni, al grido “non ho paura di te, non ti odio, non so nemmeno chi sei, non mi hai mai fatto del male”, andiamo a prenderci un caffè e a parlare di sport.

    Solare e luminosa, questa iniziativa è la versione pop (e scorretta: nessuno odia il popolo iraniano, anzi tutti lo amano e lo sostengono, ed è la leadership iraniana a volere per prima la distruzione di Israele, non il contrario) di un’altra campagna, dai toni meno luccicanti, portata avanti da molti commentatori: Israele ha un problema con la democrazia, è ossessionato dall’Olocausto, non riesce a guardare la sua sicurezza in termini laici, ma è tornato all’ideologia sionista. Il direttore del New Yorker, David Remnick, è stato il più chiaro e diretto, una settimana fa: “La democrazia non è mai completamente compiuta, nei migliori dei casi è un’ambizione, un divenire”, inizia il suo commento, parlando poi delle difficoltà democratiche del medio oriente in un anno di primavera araba e arrivando in fretta al punto: “C’è un altro stato della regione in mezzo a una crisi democratica. E’ lo stato d’Israele”. Secondo Remnick, “un intenso conflitto di valori ha messo la natura democratica del paese sotto un enorme stress”, e non sono soltanto i critici del premier, Benjamin Netanyahu, a sostenerlo, anche il suo ministro della Difesa, l’ex laburista Ehud Barak, parla di rischio “di apartheid, xenofobia, isolamento”. La “corrosione politica” inizia con “l’occupazione dei territori palestinesi” e con la proliferazione di una cultura “antidemocratica e persino razzista” praticata dalla popolazione ebraica nella Cisgiordania. La colpa è della leadership pro insediamenti e di un ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, “wildly xenophobic”. Remnick sottolinea anche il ruolo sempre più aggressivo degli ultraortodossi, con i loro problemi con le donne e con la società laica e civile. A Tel Aviv la situazione è differente, concede il direttore del New Yorker, ma “sondaggi su sondaggi rivelano che molti giovani israeliani stanno perdendo contatto con i principi liberali e democratici dello stato”. Imbeccato da Netanyahu, “il 51 per cento degli israeliani crede che dovrebbe essere proibito criticare duramente lo stato di Israele in pubblico”. Con questa leadership, “il principio di una democrazia liberale è diventato negoziabile nella dinamica di una politica di coalizione. Un opportunismo di così breve periodo non può che comportare un prezzo di lungo periodo: il sogno di uno stato democratico ed ebraico – e del processo di divenire democratico – può essere dolorosamente, se non irrimediabilmente, rimandato”.

    Remnick cita Peter Beinart, brillante polemista americano che, dopo aver sostenuto l’invasione americana in Iraq, si è pentito del “gravissimo errore”, ha sostenuto in un bel libro che la difesa della democrazia è di sinistra e ha poi iniziato a occuparsi di hybris, americana e non, fino a scrivere un articolo sulla New York Review of Book, nel 2010, in cui denunciava la separazione in corso tra i principi liberali e il sionismo. Il tema è al centro del suo prossimo libro, in uscita il 27 di questo mese, “The Crisis of Zionism”. Beinart, che sul Daily Beast ha appena aperto un blog che si chiama “Zion Square”, ha scritto ieri sul New York Times un articolo chiaro fin dal titolo: “Per salvare Israele, boicotta gli insediamenti”. Beinart sostiene che israeliani e palestinesi, in egual misura, stanno facendo fallire il sogno di due popoli e due stati, e che per reagire non c’è bisogno di arte geopolitica, ma basta partire dalle parole. I territori oltre la cosiddetta linea verde sono definiti “Giudea e Samaria” dagli ebrei – scrive Beinart – sottintendendo che “la caratteristica più importante di questa terra è la sua discendenza biblica”; i palestinesi li chiamano “Cisgiordania”, sottintendendo che il tratto più importante di questa terra è il suo legame “con il regno di Giordania nella porta accanto”. Entrambe le definizioni non dicono nulla, taglia corto Beinart, queste terre andrebbero chiamate “Israele non democratico”, in contrapposizione con l’Israele democratico che sta entro la linea verde. Ecco, tutto quel che sta oltre è antidemocratico e andrebbe boicottato e anzi, ogni volta che un giornale americano definisce Israele democratico, “dovremmo chiedere di includere un caveat: soltanto entro la linea verde”. Oltre è la terra politica dei sionisti, terra di apartheid. Attenzione, scrive Beinart, non tutti i settler sono cattivi e invasati, anzi: “Sono un ebreo impegnato, faccio capo a una sinagoga ortodossa, mando i miei figli in una scuola ebraica, e cerco di instillare in loro la stessa devozione per il popolo ebraico che i miei genitori hanno instillato in me. Boicottare altri ebrei è un atto doloroso, innaturale. Ma l’alternativa è peggio”. Perché, conclude Beinart, quel legame imprescindibile tra sionismo e democrazia s’è spezzato e “se vogliamo proteggere Israele dalle minacce esterne dobbiamo proteggerlo prima di tutto da quelle interne”.

    Nel mainstream d’opinione la leadership israeliana è antidemocratica e ossessionata dallo strike anti iraniano – e per fortuna che c’è Obama che trattiene la furia sionista. Noah Efron, professore all’Università Bar Ilan, ha spiegato che “la lotta ebraica contro gli ultraortodossi è parte di uno scontro di lunga data su quel che conta legittimamente nell’essere ebreo”. Gil Troy, professore di Storia alla McGill University, ha scritto su New Republic che Netanyahu dovrebbe dimostrare che una sintesi interna tra religione e laicità c’è sempre stata e non è in pericolo, al netto dei conticini di sopravvivenza politica. “No, Israele non sta diventando uno stato teocratico come l’Iran”, scrive Troy, che è una dichiarazione da ribadire, nel gioco delle equivalenze antidemocratiche, con tutto il cuore rosa del mondo.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi