Sogno d'amore e politica

Paola Peduzzi

La chiamano dedizione alla causa, ma è un’espressione che non dice nulla, non racconta nulla, non basta a spiegare nulla. Un interesse collettivo che divora un interesse privato non può sintetizzare la vita di Aung San Suu Kyi. Perché l’interesse collettivo è sì la democrazia di un paese che da decenni conosce soltanto la ferocia di un regime militare, ma l’interesse privato è una famiglia, due figli ragazzini, un marito che muore giovane e solo, un silenzio che, in quella casa a Rangoon, sembra eterno, è stato eterno.

    La chiamano dedizione alla causa, ma è un’espressione che non dice nulla, non racconta nulla, non basta a spiegare nulla. Un interesse collettivo che divora un interesse privato non può sintetizzare la vita di Aung San Suu Kyi. Perché l’interesse collettivo è sì la democrazia di un paese che da decenni conosce soltanto la ferocia di un regime militare, ma l’interesse privato è una famiglia, due figli ragazzini, un marito che muore giovane e solo, un silenzio che, in quella casa a Rangoon, sembra eterno, è stato eterno. L’interesse privato è l’amore, e non è sdolcinato pensare che, non potendola cacciare nelle gabbie coi cani come facevano con gli studenti, i generali birmani hanno cercato di uccidere Suu Kyi rubandole l’amore. Ma non ce l’hanno fatta.
    Aung Suu Kyi è “daw”, la signora della Birmania (il termine significa anche zia, evoca un senso di affetto e protezione), “The lady”, come recita il titolo dell’ultimo film di Luc Besson a lei dedicato. E’ uno dei volti più riconoscibili del mondo: gli occhi decisi su un volto angelico, il corpo minuto, i fiori nei capelli che sono senso d’appartenenza, ricordo di suo padre che la salutava prima di andare a lavorare infilandole un fiore tra i capelli. Nelle prime scene del film di Besson, Aung Suu Kyi è una bambina, è appisolata su una sedia in giardino, il fiore dietro l’orecchio, placida come solo i bimbi che dormono sanno essere, quando arriva la notizia a casa: hanno ammazzato il generale U Aung San, il suo papà. Aveva due anni, e la causa birmana – quella che voleva un paese libero dagli inglesi, guidato da militari con la vocazione di una transizione democratica, come sperava il generale U Aung San, ma non i suoi rivali che l’hanno ucciso, con un colpo in testa e poi un’altra scarica isterica di colpi – le aveva già rubato il suo primo amore.

    Oggi the lady è libera. Il primo aprile parteciperà alle elezioni di Birmania come candidata della Lega nazionale per la democrazia, una delle diciassette fazioni in corsa per le parlamentari. Il generale U Thein Sein, che guida il paese, ha invitato osservatori occidentali per monitorare il voto, una mossa sorprendente e inedita, ennesima dimostrazione della politica di “riconoscimento internazionale” adottata – ma i dubbi e i sospetti sono tanti – dalla giunta. Aung Suu Kyi è il simbolo dell’inizio di questa riconciliazione tra l’establishment militare e il movimento democratico, lei che è stata per anni, anzi per buona parte degli ultimi vent’anni, reclusa a casa agli arresti domiciliari, e che tra una settimana può diventare una parlamentare della Birmania. Naturalmente si tratta di un’apertura che non cambia la struttura del potere nel paese, cioè la rivoluzione non è arrivata a palazzo, non ancora almeno. Soltanto 48 seggi su più di seicento sono rinnovabili e il prossimo appuntamento elettorale non è previsto, al momento, prima del 2015. Ma è un’apertura, e ha un fiore tra i capelli.

    Anche le elezioni del 27 maggio del 1990, le ultime cui the lady ha partecipato, sembravano una concessione della giunta a un movimento democratico che, venti mesi prima, era stato represso: morirono almeno tremila persone, soprattutto studenti. In realtà quelle elezioni furono una farsa. Aung Suu Kyi era il segretario generale del partito, era agli arresti domiciliari dal luglio dell’anno precedente e le fu impedito di partecipare come candidata alle elezioni, perché era una straniera, un’inglese come suo marito. Suu Kyi aveva soltanto un passaporto, ed era birmano, ma era un dettaglio ininfluente per la giunta. U Tin Oo, il presidente della Lega nazionale per la democrazia, che era il primo partito dell’opposizione, era stato condannato ai lavori forzati per tre anni con l’accusa di sedizione. I suoi crimini erano: “Incitamento al popolo a mal interpretare l’attività del governo”, “contatto con organizzazioni straniere, con scrittura e spedizione di report falsi contro il governo”. Gli altri trentatré membri del comitato centrale del partito erano in prigione, tranne tre. Almeno venticinque candidati alle elezioni, soprattutto appartenenti alla Lega, erano stati arrestati senza alcuna accusa, in semplice applicazione della legge marziale. Almeno cinquecentomila abitanti delle principali città del paese, sospettati di essere dalla parte di Aung Suu Kyi, erano stati cacciati dalle loro case e spediti in piccoli centri urbani in cui non c’era nulla, se non la malaria: senza servizi, senza un minimo di strutture igieniche, senza ovviamente qualche sgabuzzino dove andare a votare. La giunta chiamò quell’operazione “urban beautification”, facciamo belle le città spazzando via quella feccia.

    Anche se stare dalla parte di quella signora minuta e fortissima fosse una condanna a morte, si vedevano dappertutto, sui vestiti dei giovani, piccole spille con la copertina di Time che ritraeva Aung Suu Kyi, con quel suo look ormai inconfondibile, semplice, tradizionale, elegante. Alcuni ragazzi osavano indossare magliette con su un cappello da contadino, l’emblema della Lega nazionale per la democrazia (sulla bandiera c’è un pavone, uno dei simboli nazionali della Birmania: il pavone che combatte è da sempre il simbolo della lotta democratica contro il regime).
    Andò a votare oltre il 70 per cento della popolazione birmana, la Lega ottenne il 59,9 per cento dei voti (quasi otto milioni di consensi), cioè 392 seggi in un Parlamento che ne aveva 492. Un trionfo. Il partito della giunta arrivò secondo in termini di percentuale di voto, ma soltanto quarto in numero di seggi in Parlamento.

    La giunta aveva già predisposto un trucco: quel Parlamento era una specie di enorme comitato che avrebbe dovuto scrivere un nuovo testo costituzionale. I militari dissero che avrebbero onorato i risultati delle elezioni, ma che non avrebbero lasciato il potere fino a che la Costituzione non fosse stata pronta, un lavoro che avrebbe preso almeno due anni di tempo. Quando arrivarono i conteggi, la giunta fu talmente scioccata che neppure il trucco sembrò sufficiente e così l’esito del voto fu annullato. Un colpo di penna, tante armi, molte minacce, e via. Fine dell’esperienza cosiddetta democratica e pluralista della giunta militare birmana.

    Aung Suu Kyi finì di nuovo agli arresti domiciliari. Negli ultimi ventuno anni quindici li ha passati così. Prigioniera. Senza processo, perché una legge del 1975 permetteva di tenere una persona agli arresti senza mai andare in tribunale per cinque anni. Poi si trovavano mezzucci, finte aperture, e si faceva ripartire l’orologio della prigionia. Vinse il premio Nobel nel 1991, usò quei soldi per un progetto in Birmania, suo figlio maggiore ritirò il premio facendo un discorso fiero e coraggioso, ma niente. Non accadde niente. Più si accendevano i riflettori su di lei, più la giunta tentava di farla scomparire, la faceva diventare un nulla, le rubava la vita facendola sentire sola e impotente. Senza amore.
    Tanto valeva ucciderla, no? Il film di Luc Besson spiega bene perché, nonostante la fortissima tentazione, la giunta non provò a uccidere Aung Suu Kiy subito (ci avrebbe provato nel 1996, facendo saltare per aria un corteo di automobili tra cui c’era anche la sua). Alla fine degli anni Ottanta, quando the lady era appena rientrata nel paese ed era stata coinvolta dagli studenti che la volevano come loro leader, iniziarono i comizi della Lega. La giunta non poteva tollerarli, erano un pugno in faccia, un’onta che l’allora generale in capo viveva come un’ossessione personale (Ne Win era in realtà un ossessionato da tutto, timorato come soltanto i più perfidi dittatori sono, feroci perché deboli, e s’affidava ai tarocchi per prendere le decisioni). I militari si presentavano a quei raduni, cacciavano via i presenti, molti li caricavano sui loro camion della morte (destinazione giungla, dove diventavano bersagli mobili dei soldati, che si divertivano a colpirli e ridevano, quanto ridevano, quando uno saltava su una mina e si ritrovava il suo braccio staccato a un passo da lui, e lo raccoglieva incredulo) e gli altri li minacciavano. Una volta, un militare sfidò Aung Suu Kyi: le disse di andarsene a casa e lei iniziò a camminare verso di lui, in mezzo a un corridoio di altri soldati con i fucili puntati. Ti sparo se non ti fermi, diceva quello, e lei avanzava, avanzava, avanzava, lui inveiva e lei avanzava: arrivò alla canna della pistola e si fermò. Lui stava per sparare, ma un altro militare su una jeep lo chiamò e gli disse no, andiamo. La storia fece il giro della città, ne parlavano tutti, ne facevano sketch nei bar per prendere in giro la giunta. Per una volta anche loro potevano ridere.

    Il generale Ne Win, chiamò a rapporto i suoi, compresi i due, quello che voleva sparare e l’altro che l’aveva fermato. Si fece dare la pistola da quest’ultimo e sparò all’altro, uccidendolo: non voglio altri martiri, disse, c’è già suo padre che da quarant’anni ci tormenta. Lei non va uccisa, non con le armi almeno. Le facciamo passare la voglia di vivere.

    Aung Suu Kyi era tornata in Birmania nel 1988 perché sua madre stava morendo. “Torno tra una settimana”, aveva detto ai figli prima di salire sul taxi, a Londra, che l’avrebbe portata all’aeroporto. In ospedale, mentre assisteva la mamma, iniziò a vedere giovani feriti, sanguinanti, tumefatti, mezzi morti. Arrivavano a fiotti, mentre fuori per le strade c’erano manifestazioni, gli studenti vestiti di bianco chiazzati di sangue, i militari con la divisa verde e il foulard rosso che randellavano, sparavano, trascinavano via corpi che si dimenavano invano. The lady cercava di far finta di niente, ma vedeva che quei giovani innalzavano nei cortei la foto di suo padre, che era morto a trent’anni, ed era un giovane pure lui. The lady cercava di far finta di niente, era lì per sua madre, la Birmania era il suo paese ma le aveva già rubato l’amore, non si sarebbe fatta ferire un’altra volta. Poi si accorse che ci sono tanti tipi di amore, c’è anche quello per la tua gente, che combatte per avere un minimo di libertà, che porta avanti facendosi sparare addosso il sogno di tuo padre, e muore e non si ferma. C’è anche quell’amore – non te l’aspettavi, non lo volevi, ma c’è.

    Fino ad allora Aung Suu Kyi aveva fatto la mamma e la moglie. Non era estranea alla causa birmana, ovviamente, aveva scritto un libro su suo padre, ma era stato un modo per fare i conti con se stessa e il suo dolore di orfana. Sua madre si era impegnata per portare avanti l’idea di democrazia del suo giovane marito, ma Aung Suu Kyi guardava da lontano. Non era di quelle che dovevano dimostrare di essere all’altezza del padre e che cercavano una successione almeno simbolica nei cuori dei rivoluzionari. Aveva scelto un’altra vita, fatta di amorevole casalinghitudine. Aveva conosciuto un uomo che studiava l’Asia, Michael Aris, lo aveva sposato, avevano avuto due figli, che ormai erano diventati adolescenti. Certo, guardava atterrita i servizi nei telegiornali che parlavano della povertà, della miseria, della repressione in Birmania, si chiudeva nelle spalle, minuta fino quasi a scomparire, soffriva, ma non si muoveva.
    Quando poi, assalita dalla causa della democrazia, aveva deciso di non scappare, suo marito e i suoi figli (i figli, un po’ meno, a dire il vero, soprattutto il più piccolo) la assecondarono. Senza remore, senza piagnistei, senza capricci. Sapevano che la stavano perdendo, che li aspettava una vita di assenza e di telefonate sporadiche interrotte a metà, la linea caduta e chissà quanti altri giorni, settimane, di silenzio. Ma la assecondarono. Suo marito Michael, Mickey come lo chiamava lei, restava con la cornetta in mano, solo, a cucinare qualcosa di commestibile per i figli, e ricordati la sciarpa, sistema i capelli, ragazzi su non litigate, sempre a farvi i dispetti, è tardi dovete andare a scuola. Mai una rivendicazione, mai un amore, ma quando torni?, quando ci sentiamo, ti aspettiamo, qui non è facile senza di te. Niente, soltanto la speranza di aver presto un visto e poter andare a trovarla. Mickey non vuole competere con l’altro amore, non ci pensa neanche, è talmente convinto del suo (e dell’essere ricambiato) che impara a far suo anche quell’amore. E’ come Dann Rail di “Castelli di rabbia” di Alessandro Baricco, che ha sposato Jun trovandola su un molo con un pacco in mano, lei gli dice prima o poi quel pacco dovrò andare a consegnarlo, e lui lo sa che lei lo farà, passano gli anni insieme e sono felici, lui non parla del pacco, non va nemmeno a sbirciare cosa c’è dentro, ma lo sa che lei un giorno dirà che deve partire, deve andare: “Tutto quel che c’era io l’ho visto, guardando te. E sono stata ovunque, stando con te”, scrive Jun, prima di lasciarlo per partire con il suo pacco.

    Mickey si ammala di tumore, il medico gli dice che ha poco tempo da vivere, cinque mesi o cinque anni chissà, s’aggrava e la giunta non lo fa entrare in Birmania. Lui vuole andare là a morire, di fianco ad Aung Suu Kyi, e il visto non arriva, non glielo fanno arrivare, anzi i militari stendono i tappeti rossi per l’uscita di lei: vai a trovare tuo marito morente, the lady, vai, non c’è problema. Marito e moglie sanno che se lei esce dalla Birmania non rientrerà mai più. Aung Suu Kyi gli dice: torno. Lui dice: non ci pensare neanche. Non tornare. Non farlo. Lei piange. E’ il momento in cui capisce che ce l’hanno fatta di nuovo, i militari birmani: le hanno rubato l’amore. Fino a quel momento, the lady cerca di non cedere: vede i figli pochissimo, una volta suo marito doveva arrivare ma poi un lutto improvviso lo aveva costretto a stare a casa, i suoi studenti vengono presi, ammazzati, sterminati, e lei non piange. Chiunque di noi piangerebbe a ogni chiamata interrotta, a ogni arrivo a ogni partenza, a ogni morto; chiunque di noi avrebbe ripensamenti, ma sto facendo la cosa giusta?, si tormenterebbe. Aung Suu Kyi è quasi disumana: il contegno asiatico che non fa trasparire emozioni non basta a spiegare tutto. Accidenti, stai sacrificando tutto quello che hai fatto per quarant’anni della tua vita e non fai una piega? Tuo marito si ammala e tu non torni da lui, lo lasci morire solo? Diciamola, la domanda indicibile: ma che donna sei? Quando piange, quando decide di mandare un video perché lei non ci sarà quando Mickey morirà, e il video arriva due giorni dopo la morte, c’è tutta la potenza tragica dell’interesse pubblico e dell’interesse privato condensati in quel collo eretto, in quel fazzoletto con cui si asciuga le lacrime, in quella voce che resta ferma anche se sa che è l’ultima volta che ascolterà parlare suo marito.

    Pensi che non la capirai mai, la scelta di Aung Suu Kyi, e sogni una come lei in Siria, in Iran, in tutti quei regimi che potrebbero cadere se ci fosse una spinta così forte e non violenta e definitiva. Pensi che Aung Suu Kyi è la negazione dell’amore, dell’essere donna – una madre e moglie che fa questo sgarbo scandaloso alla vita – e scopri che non c’è niente di più grande e potente e incomprensibile del suo sacrificio. Il sacrificio d’amore.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi