Il Pd, la sinistra e il montismo 2.0

Claudio Cerasa

La mezza dritta arriva di venerdì mattina sul Frecciarossa che da Roma porta a Milano: il cronista salta sul treno, si fa largo tra i divanetti della seconda classe, si accomoda accanto a un finestrino della carrozza numero quattro, poi apre il suo portatile, inizia a scribacchiare e a un certo punto comincia ad ascoltare alcune parole che arrivano da dietro le sue spalle.

    La mezza dritta arriva di venerdì mattina sul Frecciarossa che da Roma porta a Milano: il cronista salta sul treno, si fa largo tra i divanetti della seconda classe, si accomoda accanto a un finestrino della carrozza numero quattro, poi apre il suo portatile, inizia a scribacchiare e a un certo punto comincia ad ascoltare alcune parole che arrivano da dietro le sue spalle. La voce è conosciuta, ha un marcato accento meridionale, e, poco più tardi, si scoprirà essere quella di un famoso, giovane e spigliato parlamentare del Pd. Il cronista si incuriosisce: appoggia l’iPhone sul tavolino, clicca sull’icona “registra” e con discrezione, poi, inizia a origliare. Si parla di Mario Monti, qui. Si parla del mercato del lavoro. Si parla di vedute differenti sulla riforma del welfare. Ma tra le righe dei ragionamenti fatti dal parlamentare Pd, in realtà, c’è qualcosa di più di una semplice chiacchierata su una “riforma storica”. C’è il senso di una tosta battaglia che si sta combattendo nel mondo del centrosinistra (nonostante l’apparente clima di grande unità registrato ieri mattina durante la prima direzione annuale convocata dal Pd). C’è il senso dello scontro tra chi sogna di non gettare al vento l’esperienza del governo Monti (Walter Veltroni, Enrico Letta, Giuseppe Fioroni) e chi invece (come Massimo D’Alema e come Pier Luigi Bersani) sogna “una grande svolta a sinistra dopo la parentesi del Professore”. Ma c’è, soprattutto, l’embrione di un mostro invisibile che, al netto della comprensibile pace pre elettorale, nelle ultime settimane ha cominciato a prendere forma anche nella pancia del Pd: il montismo 2.0. Oppure, se volete, chiamatelo pure il partito della Grande coalizione.

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    “Noi non possiamo più permetterci di andare avanti in questo modo, e non possiamo pensare che sia più importante salvare il Pd piuttosto che salvare il paese. Siamo in una fase nuova: le cose cominciano ad andare meglio, le riforme iniziano a vedersi e sarebbe da irresponsabili pensare che questo processo virtuoso possa essere interrotto tra pochi mesi solo per paura di scontentare un pezzo del nostro elettorato. Il governo Monti, dobbiamo capirlo, non può essere una parentesi, e per questo dopo le prossime amministrative bisogna andare avanti: dobbiamo muoverci subito”.

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    Il ragionamento del parlamentare del Pd rientra nell’ambito di una questione importante che negli ultimi giorni – un po’ per le polemiche sul mercato del lavoro e un po’ per le reazioni alle parole di D’Alema sull’inevitabile svolta a sinistra del partito – è ritornata a essere d’attualità nel mondo del centrosinistra. La nascita del governo Monti, si sa, ha coinciso con la maturazione all’interno del Pd di due distinti partiti che di tanto in tanto si ritrovano a battagliare tra loro intorno alle riforme più importanti proposte dai supertecnici di governo. E così, che si parli di pensioni o di liberalizzazioni o di spending review o di pareggio di bilancio o di articolo 18, capita spesso di ritrovarsi di fronte alla stessa scena: con i democratici ipermontiani convinti che il futuro riformista del Pd non possa prescindere da ciò che rappresenta oggi il montismo; e con i democratici ipercamussiani convinti a loro volta che il Pd, per non essere fagocitato dalla svolta tecnocratica, abbia la necessità di considerare l’interregno montiano nient’altro che una fase di transizione. Fino a oggi, al centro della battaglia tra i due Pd, vi era, nella sostanza, una differente interpretazione della parola “riformismo”. Ma con il passare delle settimane, e di riforma in riforma, è successo che alla fine il vero oggetto dello scontro tra le due anime del centrosinistra ha cambiato nome, e da riformismo, ora, si è trasformato in qualcosa di diverso: il grancoalizionismo; o se volete il montismo 2.0.

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    “C’è poco da fare: qui giorno dopo giorno ci stiamo rendendo conto che sulle ricette da adottare per salvare il paese noi siamo più vicini ai riformisti di centro e di centrodestra che ai laburisti del nostro partito. E’ un dato di fatto: noi abbiamo capito che, in questa fase, occorrono riforme non di destra o di sinistra ma semplicemente di buon senso, e per questo è importante lavorare per far sì che questo clima non venga compromesso dalle prossime elezioni. Per questo, una volta risolto il dossier sul lavoro, dobbiamo impegnarci per dare al paese la possibilità di non farsi travolgere dal ritorno della cattiva politica, e creare le condizioni per una vera fase costituente”.

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    La telefonata continua ancora per qualche minuto ma il senso del discorso ci offre lo spunto per approfondire una questione non secondaria in questa fase della legislatura. Insomma: possibile che anche nel Pd ci sia qualcuno che proprio non riesce a resistere all’irresistibile potere di seduzione esercitato dal partito della Grande coalizione? Vista la lontananza con l’appuntamento delle politiche, in teoria, il tema potrebbe sembrare fuori luogo. Ma in realtà, e nel Pd questo lo sanno tutti, la Große Koalition è un fantasma che periodicamente viene evocato dal fronte montiano del partito per esorcizzare uno spettro che s’aggira minacciosamente nel Pd, e che a sua volta è stato evocato domenica sera da Fabio Fazio proprio da Massimo D’Alema: la necessaria “svolta a sinistra di cui ha bisogno l’Italia e di cui ha bisogno il Pd”.

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    “Io non ci posso fare nulla se in questa fase mi sento più vicino a un Angelino Alfano, a un Roberto Rao o a un Giuliano Cazzola, piuttosto che a uno Stefano Fassina. E qui non si tratta di parlare di quelle stupidaggini delle alleanze di Vasto, si tratta semmai di fare un ragionamento di tipo diverso. Possiamo permetterci di andare un domani al governo con le stesse persone che dicono di no a tutte quelle riforme indispensabili per allontanare dal nostro paese l’orizzonte economico della Grecia? Possiamo permetterci di governare con chi oggi dice che Monti deve andare a casa? Possiamo permetterci di mettere fretta al governo chiedendogli di ridisegnare il paese, così come ce lo chiede l’Europa, in una manciata di mesi? Possiamo permetterci di chiedere di farsi da parte alla persona che ha permesso al nostro paese di recuperare una credibilità internazionale?”.

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    A sinistra, in realtà, la Grande coalizione è uno scenario che si ripropone ogni volta che il partito montiano sceglie di mettere la testa fuori dalla sabbia per sfidare il fronte laburista del Pd. Finora il segretario del Pd, molto applaudito ieri in direzione, ha sempre scelto di esorcizzare l’ipotesi di “un Monti dopo Monti” utilizzando di volta in volta espressioni come queste: “Non se ne parla, è un’ipotesi troppo cervellotica”; “Per carità, nel 2013 la democrazia deve tornare a respirare con due polmoni”; “Non scherziamo, i cittadini devono poter tornare a scegliere che governo desiderano”. Bersani, però, sa che all’interno del suo partito questa creatura mostruosa con la testa da tecnico e con il corpo da politico viene ormai notata (e non negata) da un numero sempre maggiore di autorevoli esponenti del Pd. C’è Enrico Letta, che non fa più mistero di lavorare per dar vita nel 2013 a una fase costituente. C’è Giuseppe Fioroni, che non fa mistero neppure lui di voler prorogare il patto fra i tre dell’ABC (Alfano-Bersani-Casini) anche nella prossima legislatura. C’è Walter Veltroni, che sogna un Pd riformista capace di competere con il Terzo polo nella conquista dell’elettorato non di sinistra ma che non avrebbe nulla da ridire se dopo le elezioni il Parlamento fosse “costretto” ad accordarsi per una “nuova fase di decantazione nazionale”. E ancora: c’è Giuliano Amato, che due settimane fa in un’intervista al Messaggero ha ammesso che anche in futuro “le grandi coalizioni se è necessario debbono essere accettate”. E poi: c’è Rosy Bindi, che, come sostenuto tempo fa in una conversazione con la Stampa, sa che “l’inciucio sulla legge elettorale porterà come sbocco inevitabile a un Monti bis, che tutti mettono in conto pur senza volerlo ammettere”. E non è finita: ci sono i famosi sondaggi pubblicati dal Corriere (quelli di Renato Mannheimer, che da mesi segnala il bassissimo gradimento per i partiti, che sarebbe inferiore all’8 per cento); ci sono gli altrettanto famosi sondaggi pubblicati da Repubblica (quelli di Ilvo Diamanti, secondo cui una eventuale lista Monti sarebbe il primo partito italiano e si aggirerebbe attorno al 24 per cento dei voti); ci sono le parole pesanti di alcuni ex bipolaristi doc come Michele Salvati (“Col tempo – ha scritto il prof. un mese fa sulla prima pagina del Corriere della Sera – i problemi italiani si sono aggravati, sino a richiedere un’opera di ricostruzione economica e istituzionale, e un impegno di risanamento morale, di dimensioni simili a quelle della fase postbellica che dovranno protrarsi molto oltre la primavera del 2013); ci sono le annotazioni non casuali di alcuni settimanali importanti come l’Economist (“Mettere a posto l’Italia potrebbe richiedere per Monti dieci anni, peccato però che il suo mandato finisca l’anno prossimo”); e infine ci sono le parole scanzonate e ironiche di un vecchio volpone prodiano come Angelo Rovati, che due settimane fa – sempre sul Corriere – ha suggerito ai partiti di mettersi d’accordo per “prorogare fino al 2015 la legislatura per consentire al governo Monti di fare le riforme con calma e ai partiti di fare pulizia al proprio interno”. Una follia? “Beh – dice con un sorriso Giorgio Tonini – se continuiamo a dire che nel 2013 torna la politica, guardate che la proposta Rovati passerà a furor di popolo…”.

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    “Dopo le amministrative, se non vogliamo buttare nel cestino quello che di buono siamo riusciti a fare in questi mesi, sarà necessario fare uno sforzo e riscrivere la nostra architettura istituzionale. Perché le cose così stanno: per dar vita a una nuova fase ‘virtuosa’, come auspica da mesi il presidente della Repubblica, e per sconfiggere tutti coloro che sperano che alle prossime elezioni le alleanze restino quelle che erano prima della caduta di Berlusconi, abbiamo solo una chance: impegnarci a scrivere subito la nostra legge elettorale”.

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    Per “nostra legge elettorale” il deputato Pd intende naturalmente la bozza di riforma presentata qualche settimana fa da Luciano Violante (responsabile delle riforme del Pd). La legge, a prescindere poi dalla soglia di sbarramento e dal premio di maggioranza che verranno scelti dai partiti, al momento ha due punti fermi che coincidono con le richieste fatte arrivare non solo dal Quirinale ma anche dal partito dei grancoalizionisti. Due, come previsto dal modello tedesco: scelta del premier dopo le elezioni, e non prima; e scelta della coalizione dopo le elezioni, e non prima. Due ingredienti che, va da sé, sarebbero fondamentali per dare ai partiti la possibilità di valutare dopo le elezioni se mantenere le alleanze tradizionali oppure se dar vita, nel caso, anche a una grande coalizione. Proprio come succede in Germania, non a caso patria della Grosse Koalition.

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    “Il punto è che non dobbiamo farci ingannare da chi in questi giorni prova a descrivere la base del Pd come se fosse naturalmente alternativa al montismo. Non è così. Il montismo è il cuore del progetto riformista del Pd ed è evidente che la ragione per cui siamo riusciti a crescere così tanto nei sondaggi è legata al fatto che i nostri elettori hanno scelto di premiare la svolta anti conservativa del nostro partito. I nostri elettori sono maturi e sanno perfettamente che un partito come il nostro ha bisogno di andare ben oltre gli schemi fallimentari della Seconda Repubblica”.

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    In realtà, l’andare “ben oltre” gli schemi della Seconda Repubblica è un’idea che, almeno alle prossime amministrative, non avrà alcun modo di concretizzarsi; considerando tra l’altro che il novanta per cento delle alleanze strette dal Pd in vista delle prossime elezioni avrà come protagonisti i ragazzoni della foto di Vasto (Bersani, Vendola, Di Pietro). Nonostante questo però nel Pd c’è chi guarda con curiosità ad alcuni piccoli esperimenti di Grande Coalizione che il centrosinistra ha scelto di promuovere in diverse città italiane. Ci sono piccoli esperimenti come quello di Ischia (dove giusto in tempo per l’arrivo della cancelliera Angela Merkel, che passerà da queste parti le sue vacanze pasquali, Pd e Pdl hanno trovato un accordo per appoggiare lo stesso candidato sindaco) o come quello di Jesolo (un comune di 25 mila abitanti in provincia di Venezia, in cui Pd, Pdl e Udc hanno scelto di appoggiare alle prossime comunali il pidiellino Valerio Zoggia, zio, tra l’altro, di Davide Zoggia, responsabile Enti locali del Pd). E poi ci sono esperimenti meno piccoli, e più interessanti, come quelli che con sempre più continuità si trovano dalle parti della Puglia. Una regione, questa, in cui, al netto delle cozze pelose, il Pd si è spesso ritrovato diviso in modo esemplare tra vecchi romanticoni della foto di Vasto e sostenitori del modello Monti. E non c’è dubbio che tra i tanti casi presenti nella regione il più significativo è quello che riguarda una città di 53 mila abitanti diventata famosa negli ultimi tempi per via dell’incontenibile attivismo della sua più che dinamica procura della Repubblica: Trani. A Trani, il centrosinistra (Pd, Idv e Sel) ha scelto come candidato unitario l’avvocato Ugo Operamolla (amico intimo di D’Alema) e ha proibito al trentacinquenne Fabrizio Ferrante di presentarsi come candidato del partito nonostante lo stesso Ferrante avesse vinto tre mesi fa le primarie del centrosinistra. Risultato: il Pd devoto a Vasto (in questo frangente di rito dalemiano) esulta per la candidatura unitaria del compagno Operamolla; mentre il Pd non devoto a Vasto (in questo frangente di rito lettiano) sceglie di appoggiare Ferrante anche a costo di rompere con il vecchio centrosinistra e dar vita a una Grande coalizione con il centro e il centrodestra.

    Una Grande coalizione, sì. O una coalizione montiana. O se volete, insomma, il partito di Napolitano.
    Cosa c’entra Napolitano con questa storia? C’entra in una certa misura. C’entra perché il presidente della Repubblica è lo sponsor numero uno di quel partito trasversale che lavora affinché le forze presenti in Parlamento non disperdano lo spirito unitario che in questi mesi sta salvando il paese. E c’entra, poi, perché in molti non hanno dimenticato che, giusto pochi giorni dopo l’insediamento dell’esecutivo Monti, fu proprio Napolitano a confessare a un amico che il nuovo governo avrebbe permesso “di aprire una nuova fase e virtuosa nei rapporti tra le forze politiche”.

    Certo: quello del presidente della Repubblica può essere anche interpretato come un semplice auspicio; ma la verità è che se oggi i grancoalizionisti, gli ipermontiani e i costituenti di centro, di centrodestra e di centrosinistra non hanno paura a esibire in pubblico i muscoli di questa creatura mostruosa, con il corpo da politico e la testa da tecnico, è perché sanno che lassù, in cima al Colle, il partito del montismo 2.0, in fondo, ha uno sponsor che tanto male non è.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.