Licenziamenti alla berlinese

Le ipocrisie sul modello tedesco svelate da chi se ne intende davvero

Michele Arnese

Il premier Monti fa capire che è disposto a mollare Palazzo Chigi se il paese non si dimostrerà pronto per la sua missione. Intanto il mondo politico-sindacale si lacera sul modello tedesco come se fosse l’ultima frontiera della resistenza sociale. L’ha sostenuto domenica il segretario della Cgil, Susanna Camusso, e l’ha ripetuto ieri anche Nicola Latorre: “Sul cosiddetto modello tedesco – ha detto il vicepresidente del gruppo Pd al Senato – sia l’unità del mondo del lavoro e sia le dichiarazioni del nuovo presidente di Confindustria sono estremamente importanti”.

    Il premier Monti fa capire che è disposto a mollare Palazzo Chigi se il paese non si dimostrerà pronto per la sua missione. Intanto il mondo politico-sindacale si lacera sul modello tedesco come se fosse l’ultima frontiera della resistenza sociale. L’ha sostenuto domenica il segretario della Cgil, Susanna Camusso, e l’ha ripetuto ieri anche Nicola Latorre: “Sul cosiddetto modello tedesco – ha detto il vicepresidente del gruppo Pd al Senato – sia l’unità del mondo del lavoro e sia le dichiarazioni del nuovo presidente di Confindustria sono estremamente importanti e confermano che non c’è alcun potere di veto esercitato dalla Cgil, semmai una positiva disponibilità di tutte le parti sociali”.

    Dunque serve adottare il modello tedesco per evitare licenziamenti facili, tentando prima una conciliazione tra le parti ed evitando quindi il reintegro, previsto in Germania, è la tesi prevalente. Ma è davvero questa la realtà, a Roma e a Berlino? Lasciamo la parola a giuslavoristi, economisti ed esperti. Innanzitutto l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori resta in vigore per i licenziamenti discriminatori, come anche per quelli disciplinari. E se il datore di lavoro sarà costretto a licenziare per motivi economici, dovrà rispettare vincoli precisi, come ad esempio il tentativo obbligatorio di conciliazione. “Sono d’accordo con il capo dello stato – dice al Foglio il giuslavorista milanese Salvatore Trifirò dell’omonimo studio legale che assiste industrie e banche –, quella del lavoro è una riforma imprescindibile per far sì che in Italia si ricominci a investire. Le modifiche dell’art. 18 sono importanti, ma devono essere valutate nel complesso della riforma che ha innovato la flessibilità in uscita, in entrata e gli ammortizzatori sociali”. Comunque, aggiunge Trifirò, “sbaglia chi pensa che con la nuova formulazione dell’art. 18 i licenziamenti individuali per motivi economici saranno più facili, la formula è così generica che darà spazio ai giudici per l’interpretazione”. Per il giuslavorista, “il problema è la lentezza della giustizia che potrebbe mettere in crisi la riforma: un indennizzo immediato dopo un licenziamento ha un senso, dopo tanti anni ha un altro senso”.

    “In ogni caso – aggiunge il giuslavorista che parla al Foglio mentre è negli Stati Uniti – la reintegrazione nel posto di lavoro, anche in presenza dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, non avveniva più perché materialmente impossibile”. L’unico aspetto della riforma Monti-Fornero migliorabile, secondo Trifirò, è la conciliazione obbligatoria posta come prima fase in caso di licenziamento per motivi economici: “Si tratta di un passaggio che può creare problemi e allungare i tempi del contenzioso. Invece la rapidità è un aspetto fondamentale. In Italia i processi sui licenziamenti dovrebbero durare 15-20 giorni”.

    A sconfessare la tesi che indica nella Germania il paese dove il reintegro è d’uso è stata anche Alessandra Del Boca, docente di Politica economica a Brescia, esperta del Cnel indicata dal Quirinale e autrice di un commento-analisi sul Corriere della Sera del 24 febbraio dal titolo inequivocabile “Articolo 18 inefficiente e iniquo. Non perdiamo l’occasione di cambiare”: “Nelle fabbriche tedesche l’indennizzo prevale nei casi di licenziamento individuale – ha detto Del Boca al Foglio –, il ricorso al giudice che sceglie tra risarcimento o reintegro in azienda è raro, il 5 per cento”. In Germania, conclude Del Boca, “si pensa che sia nell’interesse del lavoratore negoziare un lauto indennizzo da 12 a 18 mensilità in base all’anzianità di lavoro invece di farsi riassumere in un posto di lavoro ormai compromesso”.

     “Sebbene la protezione contro i licenziamenti ingiustificati sia forte in Germania – ha scritto ieri Tobias Bayer, corrispondente da Milano per il quotidiano tedesco Financial Times Deutschland, sul sito Sussidiario.net – non esiste un obbligo di reintegrazione. In Germania non accade quasi mai che un giudice del lavoro disponga la reintegrazione del lavoratore in azienda, salvo quando ritenga che sotto il motivo economico-organizzativo addotto dall’imprenditore ci sia una ragione di discriminazione”.
    “La riforma del mercato lavoro – ha spiegato ieri Arturo Maresca, docente di Diritto del lavoro nell’Università La Sapienza – è di fatto sovrapponibile al modello tedesco nella parte che riguarda la disciplina sanzionatoria dell’ingiustificato licenziamento economico. Infatti, in Germania è il giudice che sceglie direttamente tra reintegro e indennizzo. Da noi, con la nuova riforma, se si scopre che, dietro al motivo economico, c’è in realtà una discriminazione o una rappresaglia, è prevista comunque il reintegro”. Dunque non si può parlare della proposta del governo come di “modello tedesco a metà”.