Parla Taguieff
Ecco perché la Francia non riconosce di essere un'incubatrice del jihadismo
Il caso Merah, rivelatore dell’identità civile di una moderna democrazia che ha inglobato l’islam, con cinque milioni di musulmani, ma coltiva l’equivoco del lupo solitario paranoico pur di salvare la tolleranza o la faccia. L’idea inquieta la Francia, dove la guerra contro il jihad è il tema dirimente della campagna per le presidenziali, ma anche l’oggetto di una sorta di rimozione diffusa.
Leggi Merah, eroe di questi tempi di Giulio Meotti
Il caso Merah, rivelatore dell’identità civile di una moderna democrazia che ha inglobato l’islam, con cinque milioni di musulmani, ma coltiva l’equivoco del lupo solitario paranoico pur di salvare la tolleranza o la faccia. L’idea inquieta la Francia, dove la guerra contro il jihad è il tema dirimente della campagna per le presidenziali, ma anche l’oggetto di una sorta di rimozione diffusa.
“L’antisemitismo in calo e l’islamismo radicale come infima minoranza sociale sono i due dogmi dominanti nel discorso politico”, dice al Foglio Pierre-André Taguieff, lo storico del razzismo che da anni si batte in prima linea per uscire dalla palude del politicamente corretto. “Entrambi servono a minimizzare l’islamismo radicale, a costo però di farci perdere il senso della realtà”, insiste Taguieff. Eppure il presidente Nicolas Sarkozy e il suo sfidante socialista, François Hollande, non hanno reagito male alla strage di Tolosa. “Non hanno avuto l’ignominia di fare ricorso alla teoria climatologica, alla brutta aria islamofobica e razzista che si respira nella società francese, come il centrista François Bayrou o il candidato del Fronte della sinistra Jean-Luc Mélenchon, che hanno finito per avvolgere in vaghe cause generali la responsabilità di un assassino, col tipico uso cartesiano e giacobino dell’astrazione dissolvente.
Almeno Sarkozy e Hollande hanno riconosciuto il fondamentalismo radicale come componente chiave dell’islam francese, pur insistendo sul carattere ultraminoritario dell’islamismo salafita, che resta in larga parte sconosciuto agli inquirenti edotti da esperti politicamente corretti come Gilles Kepel e Olivier Roy”. Meglio così allora? “Meglio di questi studiosi che passano la vita a minimizzare l’islamismo radicale pur di non nuocere ai loro amici e continuare a insegnare nei paesi arabi, anche al rischio di innescare effetti perversi”.
Gli effetti perversi però ora sono sotto gli occhi di tutti. I francesi voltano lo sguardo da un’altra parte, dicono di voler girare pagina, come ha fatto Hollande, e stendono un pietoso velo sui pasticci dei servizi o sul fallimento del multiculturalismo. “Le élite dirigenti e buona parte delle élite mediatiche, in effetti, sono disposte ad ammettere il barbaro fatto di cronaca isolato, ma si rifiutano di riconoscere che la società francese è percorsa da focolai di islamismo radicale. Certo, non bisogna ridurre tutto al jihad, ma il jihad è una componente essenziale dell’islamismo, e questa novità, negativa per i liberaldemocratici progressisti sempre in allerta sul pericolo fascista, è la novità geopolitica degli ultimi vent’anni”.
Come mai i francesi stentano a farsene carico? Perché mette i crisi i principi dell’universalismo democratico o per motivi elettorali? “I francesi sanno anche essere critici verso l’universalismo democratico, quando denunciano per esempio l’interventismo americano, ma in questo caso si rifiutano di ammettere la banalità di certi effetti perversi imprevedibili di quell’interventismo (come gli agenti doppi e tripli che di colpo si mettono a sparare contro i civili o i bambini ebrei di Tolosa). Prevale un forte etnocentrismo. La Francia si considera al di sopra di tutto: l’esercito, i politici, i servizi segreti sono i migliori del mondo. Così, persino gli antipatrioti come Eva Joly si scoprono patriottici.
A quest’ondata di sciovinismo si accompagna una sistematica cecità nei confronti di una realtà che può dare fastidio. Michel Wieviorka insiste sul Monde e Libération nel dire che l’antisemitismo è in calo, ma lo fa solo per tenere un discorso accettabile per le élite. In realtà, è vero il contrario. Dal 2000 la giudeofobia in Francia ha toccato picchi di 500-600 episodi di violenza l’anno, facendo un salto rispetto agli anni Novanta. Il caso Merah ora provoca reazioni attutite. Lo stesso accadde col caso Ilan Halimi, il giovane ebreo sequestrato, torturato e ucciso da Youssouf Fofana, quando si parlò di un mostro degenerato, di un delinquente di banlieue.
L’unica differenza è che allora il fondamentalista islamico era un nero, mentre oggi è un maghrebino, ma oggi come allora prevale la stessa volontà di fare di quel caso un’eccezione. L’unica che dice il contrario del politicamente corretto – prosegue Taguieff – è Marine Le Pen, che però demonizza i problemi, senza aiutare a risolverli. E certo, il contesto elettorale non aiuta, perché tutti denunciano la strumentalizazione, e strumentalizzano il caso. Ci vorrebbe un coraggio politico che però la cultura democratica non favorisce, perché un politico selezionato dai partiti il coraggio oggi non se lo può dare. Ci vorrebbero un De Gaulle o un Mendès France per difendere la democrazia senza farsi illusioni”.
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