I veri partiti e il loro gioco duro

Alessandro Giuli

La fiammata politica di ieri – il Pd che minaccia cazzotti contro il governo sul lavoro, il governo che ribadisce la propria inesorabilità a fronte di partiti impopolari, i sindacati confederali che tornano concordi sullo sciopero contro la riforma delle pensioni – ha certo a che vedere con le amministrative in vista. Ma è anche figlia di tendenze esplosive sempre meno latenti nella maggioranza tripartita e nei poteri colleterali al Palazzo. Non c’è solo la decostruzione del bipolarismo, tra gli effetti del recente mezzo accordo sulla legge elettorale.

    La fiammata politica di ieri – il Pd che minaccia cazzotti contro il governo sul lavoro, il governo che ribadisce la propria inesorabilità a fronte di partiti impopolari, i sindacati confederali che tornano concordi sullo sciopero contro la riforma delle pensioni – ha certo a che vedere con le amministrative in vista. Ma è anche figlia di tendenze esplosive sempre meno latenti nella maggioranza tripartita e nei poteri colleterali al Palazzo. Non c’è solo la decostruzione del bipolarismo, tra gli effetti del recente mezzo accordo sulla legge elettorale. Concordando sulla bozza di modifica delle regole del gioco, Pdl-Pd-Udc (e intendenza terzopolista) hanno scavato una linea di frattura netta tra passato e presente e tra concorrenti e tifosi del governo tecnico. La faglia tra il Gruppo Espresso e il premier Mario Monti, per esempio, già visibile intorno alla riforma del mercato del lavoro scritta dal ministro Fornero, oggi trova una consacrazione nitida nel rifiuto della pedagogia montiana sancito da Barbara Spinelli, commentatrice di peso del club De Benedetti. Non è un clivage ideologico, altrimenti Eugenio Scalfari non avrebbe marcato le distanze dal montismo in modo così ambiguo e tardivo. Né è in questione soltanto una forte ansia di ottenere la bonifica dell’Italia dal berlusconismo. Sta emergendo la disillusione di chi, da CDB ed Ezio Mauro in giù, alla testa o alla giugulare della sinistra italiana, ambiva a condizionare le prospettive aperte dall’esperimento tecnocratico.

    L’autonomia decisionale e comunicativa esibita del governo (ultimo affronto, l’accondiscendenza della coppia presidenziale di Palazzo Chigi verso i settimanali berlusconiani), combinata con il tramestio grancoalizionista che ha generato la bozza di riforma elettorale, segnala una distonia troppo forte rispetto ai disegni tecno-liberal di Largo Fochetti. Di qui la scelta di mettere sotto accusa Monti: la consunzione di leadership è un esercizio in cui republicones primeggiano. Dove metterà capo questa autorevole dissidenza è difficile indovinare. Ma è già chiaro come una sconfitta del partito della zizzania, mentre farebbe di Monti un jolly universalmente fungibile dopo il 2013, ridimensioni le aspettative quirinalizie dell’amico Romano Prodi trattenuto a bordo campo da un testacoda neo proporzionalista che, non a caso (e fatta salva la sua indipendenza culturale), viene censurato dal prodiano Arturo Parisi. Dopodiché c’è il Pd, un partito d’incontinenti verbali (e twittatori seriali) nel quale a manovrare dall’alto sono sempre D’Alema e Bersani. A loro l’accordo di sistema consentirebbe di cullare l’opposizione interna, che sogna larghe intese montiane future, per dedicarsi con maggior concretezza al progetto di un Labour party primonovecento che guardi al centro senza l’obbligo di un’alleanza prima del voto. E con in più la sicurezza d’una possibile alternativa: se l’accordo pre elettorale salta (col governo Monti?), il vecchio premio di maggioranza nuocerà sempre meno a Pd e Pdl che ad altri. E’ questa la preoccupazione del beneficiario designato dall’accordo tripartito: Pier Ferdinando Casini. In apparenza gli sta andando tutto liscio, troppo per non insospettirsi. Con il proporzionale senza vincoli, la sua creatura centrista riuscirebbe a ingrassare sulle emorragie del Pdl e diventerebbe l’equilibratore indispensabile del nuovo Parlamento. Come il vecchio Psi craxiano. La seconda uscita (porcellum vigente) sarebbe invece per Casini il perpetuarsi dell’identico: irrilevante alla Camera, forse dirimente al Senato, personalmente spendibile per un ruolo istituzionale, ma inconsolabile per l’ineffettualità della parentesi montiana. E il Cav.? Un patto di sistema proporzionale consente al suo Pdl di perdere senza lasciare il banco al Pd, e a lui di non smarrire il filo (condizionante) del dialogo con Monti e Napolitano. Quel filo vissuto dai republicones come un cappio intorno al collo dei loro progetti.