Il Washington Post torna alle origini (ma in chiave digitale)
Sarà John Temple (direttore del sito Civil Beat e in passato direttore del Rocky Mountain News) il nuovo responsabile della piattaforma digitale del Washington Post. Lo scrive il sito Politico.com, ricordando che all’inizio del mese il posto lasciato libero da Raju Narisetti (passato al Wall Street Journal) era stato rifiutato da Richard Berke, il digital manager del New York Times.
Sarà John Temple (direttore del sito Civil Beat e in passato direttore del Rocky Mountain News) il nuovo responsabile della piattaforma digitale del Washington Post. Lo scrive il sito Politico.com, ricordando che all’inizio del mese il posto lasciato libero da Raju Narisetti (passato al Wall Street Journal) era stato rifiutato da Richard Berke, il digital manager del New York Times.
Stare al passo con i tempi, puntare sui nuovi media, sui social network: è l’imperativo dato dall’editore Katharine Weymouth (nipote di Donald Graham, a sua volta figlio della storica Katharine Graham, per quarant’anni alla guida del Post) al direttore Marcus Brauchli, per anni corrispondente all’estero nel Wall Street Journal. I ricavi sono in calo, la tiratura non è più quella dei tempi d’oro, quando Ben Bradlee e Kay Graham sognavano di far diventare il Washington Post un quotidiano nazionale, facendolo uscire dal recinto nel quale era stato chiuso per anni: un giornale politico letto nella capitale, in parte della Virginia e in qualche contea del Maryland. Erano gli anni della pubblicazione dei dossier del Pentagono sulla guerra del Vietnam e, soprattutto, del Watergate. Fu il culmine del successo (e della tiratura) del giornale dei Graham: si moltiplicarono le assunzioni e le sedi di corrispondenza, si cercò di sfidare a colpi di scoop e di esclusive il New York Times.
Le cose iniziarono a cambiare con l’arrivo di Don Graham, che nel 1979 divenne editore al posto della madre. Don pensava che, passato il Vietnam e ottenute le dimissioni di Nixon, il giornale dovesse tornare alle radici, al proprio ambito territoriale circoscritto: “Concentrarsi solo su Washington”, disse alla prima riunione con la redazione. Ma le inchieste di Bob Woodward e Carl Bernstein erano ancora troppo recenti, e parte della famiglia Graham (sostenuta da ampi settori della redazione) cercò di opporsi in tutti i modi alla nuova linea. Oggi, a quasi trentacinque anni di distanza, il contenimento delle spese ha portato alla chiusura delle sedi di New York, Los Angeles e Chicago; la newsroom è passata da oltre mille effettivi a meno di 640, la sezione Style da 100 a 20.
Il digitale è diventato quindi una necessità, una strada che non può più essere evitata. Nel 2005, John Harris, Jim VandeHei e Mike Allen (tutti e tre giornalisti del Post) avevano proposto all’editore di iniziare a investire su Internet per ovviare alla crisi dei giornali cartacei. Non se ne fece nulla, e i tre costruirono dal nulla il sito Politico.com (che è anche un giornale di carta), che in sette anni è passato da 15 redattori a più di 150, con almeno 4 milioni di visitatori al mese. All’inizio, Politico guadagnava di più con la carta che con il sito, ma poi si è imposto come punto di riferimento per l’analisi politica americana. E proprio pensando a Politico.com Brauchli ha impostato la redazione come un enorme digital center in cui grandi schermi piatti forniscono in tempo reale informazioni sui link più consultati, sulle notizie più lette e più di tendenza. Riponendo nel cassetto gli antichi sogni di gloria e tornando alle origini: occuparsi di pochi avvenimenti, ma seguirli bene.
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