Fede, fenomenologia di un rispettabile mostro
Era bellissimo Emilio Fede negli anni Settanta. Bruno, occhi neri, quella parlata querula con forte inflessione siciliana, le mani piccole e gesticolanti. C’è ancora chi lo ricorda inviato a Teheran per festeggiare l’impero millenario di Persia, con lo Scià coperto di diamanti e stole di ermellino e la seconda moglie, Farah Diba, al culmine del suo splendore.
Leggi Tributo a Emilio Fede di Annalena Benini
Era bellissimo Emilio Fede negli anni Settanta. Bruno, occhi neri, quella parlata querula con forte inflessione siciliana, le mani piccole e gesticolanti. C’è ancora chi lo ricorda inviato a Teheran per festeggiare l’impero millenario di Persia, con lo Scià coperto di diamanti e stole di ermellino e la seconda moglie, Farah Diba, al culmine del suo splendore. Basta guardare la piccola antologia di immagini sul sito del Corriere della Sera per ritrovare qualcosa di quell’antica magia, della magnificenza catodica di quando la televisione era la televisione, e cioè una, unica e sola, dominatrice assoluta dell’immaginario pubblico italiano. Carlo Freccero, il più filosofico dei manager televisivi oggi in circolazione, non nutre nostalgia per quell’epoca remota, ma sa benissimo che Emilio Fede e la sua parabola si confondono interamente con quell’idea di una televisione unica e sola, e soprattutto con la rottura di quell’idea e la fine del monopolio pubblico perpetrata agli inizi degli anni Ottanta da un costruttore milanese dal sorriso esagerato e i progetti lungimiranti, che portava lo stesso nome di un personaggio di Gadda. “Ebbi la fortuna di incontrare Emilio Fede al mio ritorno in Italia, quando, dopo l’avventura francese della Cinq, Silvio Berlusconi mi nominò direttore di Italia Uno. Era il 1991 e potei vederlo in azione alle prese con la diretta. All’epoca, non c’era stata ancora la concessione delle frequenze via etere, dunque la diretta era clandestina. Nell’estate del 1991, assistemmo alla caduta di Michail Gorbaciov a Mosca, al colpo di stato di Boris Eltsin. Eravamo in pieno agosto. Rientrammo a rotta di collo dalle vacanze. La televisione era ancora libera, era un’avventura, non come oggi che è diventata un’arena per lo scontro politico, una sorta di apparato di stato”. All’epoca, insiste Freccero, la tv commerciale veniva percepita come qualcosa di “liberatorio”.
Difficile riconoscerlo trent’anni dopo. “E invece no. Negli anni Ottanta, il fatto che la tv fosse gestita da pochi con intenti pedagogici venne percepito come una violenza e un abuso insopportabili, come una forma di colonialismo e sopraffazione. Il pubblico non aveva più voglia di finanziare la tv con un canone, che era come una tassa scolastica suppletiva, ma con la pubblicità e i proventi che ne derivavano. Per questo, per far vincere la tv commerciale, bisognava intercettarne i gusti e compiacerli”. Emilio Fede fu uno dei dispositivi chiave nella strategia di Berlusconi, il quale attinse a piene mani dal personale della tv pubblica, per lanciare il nuovo organigramma della tv commerciale. “All’epoca nessuno voleva capire che la tv commerciale era qualcosa di liberatorio”, insiste Freccero. “Le masse fanno massa, diceva Jean Baudrillard, per dire che le masse non sono buoni conduttori del potere e del sapere, ma cattivi conduttori. Ma tutto questo crea una forma di forza, un’energia straordinaria, anche se poi naturalmente tutto va a finire a puttane, perché la storia ci frega sempre, pensi di andare a Torino e ti ritrovi a Roma, pensi di andare in India, e finisci in America, come insegna Colombo”. E infatti, anche con la tv commerciale pensavano di andare a Los Angeles invece sono finiti tutti a Cologno Monzese. “Quando Berlusconi, da imprenditore televisivo, decise di entrare in politica e scese in campo, fondando un suo partito, cambiò tutto. A quel punto Emilio Fede, che era un anchorman sperimentato della tv, un grande inviato, un mattatore in pectore, scelse di schierarsi, perché bisognava essere fedeli servitori del padrone od oppositori”. In questo senso, però, secondo Freccero ebbe una grande virtù: “Non era un manipolatore, ma solo uno uomo schierato. Non è mai stato terzista, non ha mai contratto quella che è la peggiore malattia dell’Italia e ha accompagnato la sinistra del ‘ma anche’.
Fede è stato la maschera che ha rivelato agli italiani come in tv occorre stare dalla parte del tuo editore di riferimento. Ha fatto una scelta di parte, senza praticare quella forma di servilismo indiretto che è il terzismo. Al terzista che crede nella confusione, sino a dissolvere l’identità della sinistra, personalmente preferisco mille volte di più la maschera del servitore alla Fede. E ora che è sanguinante e in difficoltà, per nulla al mondo oserei attaccarlo, non solo perché amo i perdenti, ma perché la sua fine segna la fine di un’epoca, e a noi non ci resta che augurarci che Mediaset torni a essere ciò che era, la tv della libertà, una tv estremamente laica, libera, indipendente, coi suoi difetti e le sue vanità”.
Anche Ruggero Guarini, che la tv più che farla la guarda, ma la capisce con la sapienza di un cultore della commedia dell’arte, pensa che Emilio Fede sia un’immensa maschera italiana. “E’ il tipo coraggioso fino all’incoscienza, che non ha mai sentito il bisogno di mascherarsi. Quale altro giornalista in Italia ha osato proporsi come un’entità al servizio di qualcuno? Oggi hanno tutti bisogno dell’alibi dell’indipendenza, dell’autonomia di pensiero. Fede invece se n’è sempre fregato”. Bel coraggio quello di farsi servo, commenta lo scettico. “Con me questa parola non si deve usare. Fede ha scelto un campo, forse che i non servi sarebbero i giornalisti di Repubblica e del Corriere della Sera? Ce ne vuole di coraggio a correre il rischio di passare per servo”. Quanto all’archetipo delle maschere antiche, da Brighella, servo furbo ma imbroglione, a Francatrippa, ad Arlecchino, poltrone e scemo, a Sganarello, che vive in ostile simbiosi con don Giovanni suo padrone, Guarini s’astiene dal dare indicazioni precise. “Più che il servo, Fede rappresenta l’amico fedele, soddisfatto, l’amico che forse frega anche il suo benefattore. Ma io dei suoi rapporti con Berlusconi, come pure di quelli con Craxi, non so nulla. La maschera che Fede si è infilato addosso in modo del tutto sfacciato è quella dell’uomo a servizio di una causa o di un uomo. Li chiami servi questi qua? Smettiamola di usare il termine in senso denigratorio. L’austriaco Robert Walser, grande scrittore del Novecento, diceva che la sua vocazione era quella del servitore, ma purtroppo era nato in un’epoca in cui non c’era nessuno degno di essere servito. Il povero Fede, invece, qualcuno che lo meritasse pensava di averlo trovato”.
Perfetto esempio di un’antropologia premoderna, feudale, arcaica, dunque. “In genere si ritiene che con l’avvento della modernità, vale a dire ciò che è accaduto in Europa dopo la Rivoluzione francese, sia nata la figura di un intellettuale indipendente. Ma sono balle. Il rapporto dell’intellettuale e del giornalista col potere è sempre ambiguo, ambivalente. Solo che molti si vergognano del fatto stesso che un rapporto esista, mentre Fede non se ne vergognava proprio. Quanto alle servitù moderne, sono ben altre rispetto a quelle che ci legano a un uomo o un padrone, e sono servitù ideologiche, politiche, che con l’alibi di una causa hanno spinto gli uomini a compiere le peggiori schifezze. Non mi risulta che Fede si sia macchiato di qualche schifezza. Ha solo confermato la sua fedeltà a un uomo che era il suo capo e il suo amico. Per il resto, la stragrande maggioranza dei suoi dileggiatori sono peggio di lui, asserviti ad altre cause, a quelle di qualche potere forte. Santoro per esempio è più libero di Fede? Meno servo di lui? Ma stiamo scherzando! E’ un povero conformista che ha scelto una precisa servitù verso il luogocomunismo di sinistra, fedele alla causa anche a prezzo di raccontare balle”.
“Emilio Fede è stato di parte, ma lo è stato senza ipocrisia, con sfacciataggine e allegrezza, senza aggressività verso gli avversari, ma in modo canzonatorio e irridente” dice lo storico Alessandro Campi, convinto che il sacerdote catodico di Silvio Berlusconi, coi suoi riti quotidiani, abbia messo in scena la devozione, la divinizzazione e l’amore che sono l’essenza del berlusconismo, senza però mai tradire se stesso . “Era un guascone dalla vita sentimentale burrascosa, amante del gioco e della bella vita, che a un certo punto ha incontrato un uomo della sua stessa pasta stringendo con lui un legame a prova di bomba”.
Anche Alberto Abruzzese, di mestiere sociologo della comunicazione, confessa una sorta di fascinazione per Emilio Fede. “E’ uno dei casi più significativi dell’inesprimibile. Un vetro opaco sul quale si possono rispecchiare le persone. Può piacere o non piacere, ma è una figura incredibilmente vicina allo spettatore e quindi, in qualche modo, ingiudicabile dal punto di vista delle regole della comunicazione”.
Molto interessante. “Com’è potuto accadere che la figura del giornalista, così imbrigliata in una serie di deontologie etiche e morali, abbia potuto inverarsi in un eccentrico come lui?”. E’ la domanda che tormenta l’ex allievo di Alberto Asor Rosa oggi docente allo Iulm. “Inutile esprimere giudizi morali, meglio studiare la stranezza del fenomeno. Fede è un mostro dell’arte di arrangiarsi, prerogativa italica quanto mai. Eccede in quelli che possono essere i difetti del giornalismo italiano e al tempo stesso in questo eccesso ha una sua originalità, perché è un mostro talmente ostentato, spudorato e senza vergogna, che nel suo caso la comunicazione, di solito fondata sul gioco tra scena e retroscena, salta completamente, visto che il retroscena ha anche un sinonimo, il fuoriscena, che viene in primo piano. Perciò sarebbe troppo facile, anzi autoassolutorio, prendersela con l’immoralità, con la scarsa onestà o la mancanza di deontologia giornalistica nel caso di Fede. Perché Fede è un mostro, l’incarnazione di un eccesso e in questo ha la sua originalità e la sua paradossale grandezza”.
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