Tributo a Emilio Fede

Annalena Benini

"Io sono il Tg4", ha detto Emilio Fede, percosso e attonito dal calcio nel sedere che non arrivava mai e poi però è arrivato.  Tra mille fandonie, una verità assoluta: Emilio Fede era davvero il Tg4, o forse il Tg4 era diventato Emilio Fede, così lontano dal giornalismo anglosassone, così vicino all’intrattenimento con le bolle di sapone, somigliante a una dichiarazione d’amore con i riflessi ramati nei capelli.

    "Io sono il Tg4", ha detto Emilio Fede, percosso e attonito dal calcio nel sedere che non arrivava mai e poi però è arrivato.  Tra mille fandonie, una verità assoluta: Emilio Fede era davvero il Tg4, o forse il Tg4 era diventato Emilio Fede, così lontano dal giornalismo anglosassone (bisogna sempre dire anglosassone per dire una cosa seria, rispettabile), così vicino all’intrattenimento con le bolle di sapone, somigliante a una dichiarazione d’amore con i riflessi ramati nei capelli. Emilio Fede si è  subito rimangiato gli improperi e le ipotesi di complotto, ha parlato della bella giornata di primavera commentata al telefono con Silvio Berlusconi, è rimasto in redazione buono buono ad aspettare comunicazioni. Ha fatto, ieri sera, anche un editoriale di addio e si è commosso, ha ringraziato tutti, dato ragione all’azienda, giurato che ci sarà ancora. Aveva gli occhi lucidi e così forse quelli che sui social network facevano il conto alla rovescia per l’ultima volta di Emilio Fede un po’ si sono dispiaciuti. Purché il suo Lui gli voglia ancora bene (“Lui non mi abbandona mai mai mai”, dice di Silvio Berlusconi), Fede è disposto a sopportare qualunque dolore, anche l’esultanza, le vignette, gli sputacchi di chi trova spiritoso fare un girotondo da avvoltoi attorno a un ottantenne messo alla porta e ridicolizzato. Tutta la notte sveglio, in poltrona, col pullover blu, lo strabuzzare d’occhi e quell’anzianità che a qualcuno regala autorevolezza, barba bianca, spettacolo di saggezza, ad altri il bisogno di continui coriandoli e abbronzature. Ottantun anni e trent’anni di direzione non sono un momento così ingrato per pronunciare l’addio alle armi, e da tempo Emilio Fede aveva trasformato consapevolmente, con un ghigno perfino generoso, il suo mestiere in un fuorionda pubblico, una cosa a disposizione di tutti, per ridere, divertirsi, indignarsi, costruirsi il modello del finale di carriera da evitare a ogni costo. Dopo tutti gli scoop serissimi, la velocità, la sintesi, l’esserci sempre, da solo, one man show della preistoria, dopo la parodia di Corrado Guzzanti che l’ha glorificato come personaggio del decennio (il giornalista spietato, saettante, gaudente, schieratissimo, potente), Emilio Fede ha scelto per sempre la rumba, i casinò, le spiagge, le maschere di bellezza, e si è fatto maschera lui stesso. Cantava Ivano Fossati che “è proprio da finale di carriera accompagnarsi a gente di cultura”, Emilio Fede è andato del tutto controcorrente e ha preferito Lele Mora (ed è stato anche fra i pochi a ricordarsene quando ha tentato il suicidio in carcere). Ha preferito un telegiornale spudorato e una vita da romanzo che, come ha scritto Michele Serra, passa da Piero Chiara nei momenti alti a Fantozzi nei tonfi.

    Ma arriva per tutti, anche i meno indignabili, il momento in cui si decide che Emilio Fede è andato oltre la parodia di se stesso, oltre la spudoratezza, oltre la possibilità di trarne un godimento anche solo estetico, da installazione di pop art. La storia della cresta sui soldi in prestito era terribile, l’idea che l’adorazione sfrenata nascondesse il tentativo riuscito di sfilare il chiavistello di una cassaforte era, sul piano umano, molto più rilevante di un telegiornale regalato con sincerità (non con finta equidistanza) all’avanspettacolo e a “Blob”. Com’è stato possibile? In “Amici miei” queste cose non succedono, o invece forse il Conte Mascetti l’avrebbe fatto. Ma i siti dei quotidiani ieri erano pieni di fantastici frammenti video di Emilio Fede, dagli esordi ai giorni nostri, dal rapimento Moro al Tg1 con voce metallica, alle invettive masticate contro i redattori, a “togligli il microfonoooo”, e “lasciatemi dire che oggi Silvio Berlusconi ha vinto la sua battaglia, con grande coraggio, e credo di non rivelare nulla di particolare dicendo che oggi ho ricevuto una telefonata, mi permetto di dire, da amico ad amico”, e lui che si culla beato con l’inno di Forza Italia, e che fa commenti sulle gambe delle ragazze senza accorgersi di essere in diretta, lui dentro “Aprile” di Nanni Moretti, lui che dice: “Prodi intervenendo alla presentazione di un libro non si sa bene di chi”, lui che va in confusione quando pensa di parlare semplicemente con Renato Schifani e invece è Silvio Berlusconi in persona e allora Fede quasi sviene di gioia.  Poi le storpiature scientifiche di tutti i nomi di quelli che gli stanno antipatici (Sabina Guzzanti è diventata qualunque altra cosa, così come i nomi dei suoi film, Draquila, Drachìla, Darchilà), e le foto di Emilio Fede in spiaggia, fiero del corpo da ottantenne ad alto mantenimento. E’ stato la commedia dell’arte della controinformazione, con commossi saluti finali. Allora anche la storia folle della valigia di denari rifiutati dalla banca Svizzera (perfino Bin Laden aveva i soldi in svizzera) può tornare a essere un’opera situazionista, una cosa non più alla Fantozzi, alla Piero Chiara, alla Mario Monicelli, ma, affettuosamente, alla Emilio Fede.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.