Il getto vegetale

Salvatore Merlo

Quando martedì scorso li ha raggiunti a Montecitorio, in quel corridoio buio ed elegante che alla Camera tutti chiamano “Corea”, pare li abbia trovati immersi in una singolare conversazione. “Francamente la stanza di Berlusconi non mi sembra la più adatta”, diceva Bersani nel tono più diplomatico di cui è capace; e Alfano comprensibilmente risentito: “Visto che l’ultima volta siamo stati nella tua di stanza, adesso possiamo anche usare quella di Berlusconi”.

    Quando martedì scorso li ha raggiunti a Montecitorio, in quel corridoio buio ed elegante che alla Camera tutti chiamano “Corea”, pare li abbia trovati immersi in una singolare conversazione. “Francamente la stanza di Berlusconi non mi sembra la più adatta”, diceva Bersani nel tono più diplomatico di cui è capace; e Alfano comprensibilmente risentito: “Visto che l’ultima volta siamo stati nella tua di stanza, adesso possiamo anche usare quella di Berlusconi”.

    Questioni di opportunità politica. Per i segretari del Pdl e del Pd è sempre complicato gestire i loro incandescenti momenti di intimità, non sanno mai da che parte prenderli senza scottarsi. “E tu dove preferisci andare, Pier?”. A quel punto Casini, con un piccolo sorriso privato: “Che la stanza sia del Pd o del Pdl ormai è la stessa cosa”. Chapeau. La scena è forse apocrifa, ma nella battuta – verissima – del leader dell’Udc c’è tutto il senso del suo nuovo corso. (Ps. Appena entrati nella stanza di Berlusconi, Casini e Alfano si sono dati di gomito con ironia: “Caspita, Fini gli ha dato una stanza enormemente più bella di quella di Bersani. E poi dicono che è di sinistra).

    Pier Ferdinando Casini ha abbandonato ogni cautela democristiana, sa che il tempo fugge, ha le idee chiare e il piglio di chi si gioca tutto, qui e ora, all’ombra del governo tecnico di Mario Monti. “Che la stanza sia del Pdl o del Pd è ormai la stessa cosa”. Non ha niente da perdere, e tutto da guadagnare, quando ricorda brutalmente ai suoi colleghi segretari di Pd e Pdl che “noi insieme siamo una unica maggioranza di governo”.

    Adesso pare li abbia persino convinti a una riforma elettorale che, proporzionale e primorepubblicana com’è, è quella che ha sempre voluto lui. Pare. Non coltiva più nessuna delicatezza, non è interessato e non pratica quel gioco obbligato di futilità introduttive, di cortesi temporeggiamenti, cui pure è stato lungamente addestrato da giovane democristiano alla scuola di Arnaldo Forlani, che gli fu padrino politico. Resta solo un vizio, non di mentire, ma di voler sempre calcolare i propri effetti: “Se io dico questo, lui penserà quest’altro, e allora io dovrò…”.

    C’è un Casini prima di Monti e c’è un Casini dopo Monti. Fino a ottobre del 2011 era il capo di un residuale partito di opposizione, l’Udc, una piccola satrapia personale composta da una ventina di parlamentari schierati all’opposizione del titanico e confuso governo di Silvio Berlusconi. Né a sinistra né a destra, ma consegnato ostinatamente alla lenta funzione gastrica del “centro”, prigioniero del suo ombelico, che è  il “centro” del corpo umano in un mondo che va invece avanti con gli estremi: i piedi per scappare e la testa per pensare. Un moderato, all’eterna ricerca di altri moderati, che pure sotto sotto ha sempre conservato un aspetto stridente da ragazzaccio.

    Per anni la sua dimensione è stata la nicchietta, il cortiletto da correntina dc, la politica dei due forni (o del doppio ascaro) praticata senza troppo successo e navigando a vista negli stretti canali lasciati liberi dalla politica bipolare italiana. I voti, tanti, glieli portava Totò Cuffaro dalla Sicilia, e lui lasciava fare, senza immischiarsi mai. Quando Cuffaro è caduto in disgrazia, lui lo ha semplicemente “canziato”, come dicono a Palermo. Ha lasciato che le cose accadessero, con nonchalance invidiabile, e senza nemmeno mai dover prendere le distanze da quel vecchio viceré che intanto finiva con dignità a Rebibbia. 

    La sua massima ambizione razionale è stata quella di rentier dell’opposizione: scalzare quello grosso (il Cavaliere), e magari dividersi le sue spoglie con qualche alleato episodico, si chiami Gianfranco Fini o Francesco Rutelli. Il suo amico Gianfranco Micciché glielo dice spesso, lo esorta al coraggio, a osare: “Ma che Terzo polo e Terzo polo? Non voglio essere terzo. O siamo primi o non siamo niente”. Ma questo era Casini prima.

    Poi è arrivato Monti. In un solo mese è cambiato tutto, repentina inversione prospettica; da un giorno all’altro. A dicembre, quello stesso rentier democristiano precipitato da tempo nel sottoscala del Palazzo, diventa “un pilastro della maggioranza di governo” (parole sue). Improvvisamente Casini scatena le attenzioni, e dunque alimenta le allusioni, dei dalemiani ironici e sospettosi come Matteo Orfini: “Resto affezionato a un’idea della democrazia in cui per misurare il consenso si contano i voti, non i sondaggi o gli editoriali compiacenti”. Il giovin signore si trasforma nel regista di movimento della squadra di governo.

    Diventa “centrale”, ma per davvero, e sfidando pure le leggi della fisica, la gravità dei corpi: non è la massa che conta. Con un gruppo parlamentare di soli venti deputati, legato con sempre minor piacere al Terzo polo e a Gianfranco Fini (ma pur sempre pronto a recuperare interesse, qualora i nuovi progetti andassero male), perennemente in attesa del suo amico Luca Cordero di Montezemolo, Casini oggi è il distributore di palloni, la cinghia di trasmissione tra il nuovo presidente tecnico del Consiglio Monti, che non gli lesina carinerie e gratitudine, e gli altri due soci più cospicui e brontoloni, i neghittosi Angelino Alfano e Pier Luigi Bersani. Armato di ogni pazienza li fa riunire, a un certo punto li fa fotografare tutti insieme nella sala di rappresentanza a Palazzo Chigi, e loro, ignari, ci stanno, si mettono pure in posa, finché Casini (furbizia democristiana, “getto vegetale di antica pianta” lo chiamava Filippo Mancuso) non li inchioda a quella stessa immagine da lui diffusa su Twitter: “Abbiamo siglato degli accordi. Sarebbe gravissimo se qualcuno li smentisse”.

    Era il 16 marzo, a cena. E’ stato un attimo, quasi una folgorazione, un’intesa istintiva con il professor Monti. Il leader dell’Udc stava per ritrarre Bersani e Alfano, seduti l’uno accanto all’altro, un po’ stanchi ma sorridenti, quando Monti, in un lampo, capisce e perfeziona l’idea. Il professore spreme l’occasione, ingrana un’andatura svelta e finalizzata: “Aspetta, la facciamo insieme”. Click. Ecco la foto. “Che cos’è il genio?”, si chiedevano con ironia i protagonisti di un famoso film di Pietro Germi, “è fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione”. Meglio di qualsiasi comunicato per la stampa. Alla fine il tecnico e l’uomo di partito si sono stretti la mano, una muta gratitudine nello sguardo.

    Da quando esiste Monti, Casini ha l’acqua per l’orto. Eppure, sotto la baldanza, dietro il volto disteso e sicuro di chi immagina di avere in tasca la riforma elettorale più vantaggiosa, e già si proietta nel 2013 sognando di farsi equilibratore indispensabile del nuovo Parlamento, come fu il vecchio Psi di Bettino Craxi; sotto questa sicurezza ritrovata, in un angolo buio della sua testa, si agitano invece i più angoscianti timori. “Avverto un pericoloso gioco di specchi”, si è confessato pochi giorni fa alludendo alle mosse più segrete e ai pensieri più remoti di Bersani e di Massimo D’Alema. Dipende tutto da loro, ma ci si può fidare di loro? Casini sa bene che Rosy Bindi ha preso da parte Bersani e si è intesa con D’Alema che per furbizia non è secondo a nessuno, nemmeno a Casini. “Ma siete impazziti? Questa legge elettorale proporzionale a noi non conviene. Noi le elezioni le vinciamo”. E poi, con il tono di Lady Macbeth che dice al marito cosa fare: “Le larghe intese convengono solo a Casini che diventa l’ago della bilancia. Ripetere l’esperienza Monti a noi ci danneggia e basta”.

    A sessant’anni suonati, ormai più imbiancato che brizzolato, Casini il suo quarto d’ora di celebrità lo ha consumato da tempo, negli anni della presidenza della Camera, quando era l’alleato e l’alterno delfino, periodicamente incoronato e deposto da Silvio Berlusconi. Le tracce di quegli anni di strenua, ambiziosa, ossessiva arrampicata e di tutti gli anni di rotolanti disillusioni che sono venuti dopo, non si scorgono nel volto, nella voce o nel portamento di Casini; ben maritato com’è, e in alto loco, ha sempre avuto poca fatica di vivere e poco dolore politico, anche negli ultimi anni solitari di sussistenza parlamentare, di sostanziale irrilevanza seguiti alla nascita di quel Pdl cui non ha voluto aderire optando per un costoso divorzio con il Cavaliere. Ha un giornale consanguineo e popolare, una figlia piccola che a scuola è registrata col doppio cognome di “Casini Caltagirone”, e in definitiva è suo l’unico macroscopico conflitto di interessi rimasto in Italia dopo il ritiro di Berlusconi dal governo (e forse dalla politica).

    Il suo è un centrismo di relazioni, incline alla promiscuità trasparente, alla luce del sole, con gli affari di famiglia (chi sponsorizza in Parlamento la costruzione dei due nuovi stadi olimpici a Roma?). Possiede un talentaccio democristiano per la navigazione a vista, Casini. Eppure adesso, proprio ora che avverte la meta a un passo e a portata di mano, con il proporzionale che quasi si riaffaccia sul presepio della politica, con i governi fatti in Parlamento e non nelle urne, insomma malgrado la mela sia lì ben visibile e pronta a essere raccolta, lui ha come una strana acquolina che lo rode dentro. “Tengo la guardia alta”, dice alternando speranza e diffidenza, osservando gli “amici” del Partito democratico che a loro volta osservano sondaggi così lusinghieri da spingerli verso altri orizzonti e altre alleanze. Dietro l’angolo per loro c’è Nichi Vendola, pronto, e con Antonio Di Pietro al seguito. “Ma lo capite o no che così vinciamo noi?”. E D’Alema non ne fa un mistero: “Dopo Monti ritorna la politica”.

    Casini ha imparato a non fidarsi, ma soprattutto sa bene che più ci si avvicina a una grande conquista più il senso del fallimento rischia di essere tragicamente definitivo, travolgente.
    I sorrisi, la stretta di mano con Alfano e Bersani a Montecitorio, e quel sigillo su un accordo di massima per la legge elettorale, lo hanno rassicurato un po’. Lo schema che ha approvato con i suoi colleghi segretari di Pdl e Pd è proprio ciò che il leader dell’Udc ha sempre desiderato: un proporzionale corretto che annacqua il sistema della contrapposizione bipolare e restituisce di fatto ai partiti – scippandola agli elettori – la facoltà di scegliere il presidente del Consiglio. Non c’è infatti obbligo di coalizione. E dunque si voteranno i partiti, per ogni partito si indicherà un premier ma senza alcuna garanzia che il leader del partito che prende più voti diventi poi davvero presidente del Consiglio. I partiti costruiranno le coalizioni in Aula: gli accordi politici, come ai tempi della Prima Repubblica, li faranno dopo il voto.  Ma l’accordo è molto impreciso, vago. Gli occhi di Bersani e Alfano non avevano nulla di vacuo, di smarrito, di definitivamente supino. E poi sciolta la riunione, appena in piedi, ciascuno di loro è tornato sull’asse della propria esistenza, dritto e isolato come un birillo. Sono ancora “soltanto parole”, muffe astratte, sotto le quali per Casini il macigno resta intatto, dolorosamente concreto: “Quelli del Pd la legge elettorale non la vogliono cambiare.

    E’ tutto un gioco di specchi”, di cui il capo dell’Udc pensa di essere la vittima. Malgrado abbia visto con i propri occhi Luciano Violante e Pier Luigi Bersani respingere l’offerta della morte dalle mani generose di Alfano e di Ignazio La Russa. Il coordinatore nazionale del Pdl, l’ex colonnello di Fini, a un certo punto, guardando dritto Bersani negli occhi lo ha detto: “Teniamoci questa legge, modifichiamo come vi pare a voi il premio di maggioranza e inseriamo le preferenze. Salviamo il sistema bipolare. Che ne dite?”. Ma niente, Bersani è stato inscalfibile, fedele alla parola data – in separata sede – al leader dell’Udc. Eppure Casini non si fida, malgrado tutto. I suoi sono timori non del tutto irrazionali che gli ha confermato anche un suo vecchio amico, uno della gioventù democristiana come lui, Enrico Letta. Sia Letta sia Beppe Fioroni, anche lui democristiano, hanno esperienza delle cose del Pd e alle spalle di Bersani adesso individuano una precisa siluette, con un sinistro accenno di baffi; Letta e Fioroni osservano con ironia e cirscopezione “i soliti colpi d’intelligenza” di Massimo D’Alema, e con Casini condividono ormai molto di più che un comune passato remoto nella Balena bianca.

    Tutti loro sognano una Terza Repubblica che indossi la grisaglia del partito democristiano, delle larghe intese, e tutti loro si sentono vittime dello stesso “gioco di specchi”, il labirinto che rischia di realizzare la sintesi degasperiana nei termini di Lewis Carroll: come trovare l’uscita? Come individuare, fra gli infiniti volti riflessi, quello autentico, di carne e ossa? Infiniti, deliranti specchi prospettici. Anche se, gratta gratta, in fondo, ci sono sempre i soliti baffi. L’avvento di Monti ha cambiato d’improvviso gli orizzonti della politica italiana, ha spalancato vertiginose prospettive, scenari che sembravano consumati per sempre. E in Casini, in special modo, Monti ha riacceso ogni ambizione mezzo sopita, ogni sogno presidenziale (della Camera, della Repubblica, del Consiglio).

    Ma tanto più è vicina la meta, tanto più fragore può fare il botto del fallimento. E per Casini questa consapevolezza è una pena incruenta, compressa, quietamente corrosiva. Il disagio nasce forse dal sentimento della sproporzione tra sforzo e risultato, ricorda lo stupore di quei comici dei vecchi film muti che si appoggiavano a un palazzo e lo facevano crollare. Il dubbio che il crollo, dopotutto, non dipendesse da loro gli restava dipinto in faccia per mezzo minuto.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.