Clowning Zizek
Quanto ha stufato il comunismo riciclato in cabaret intellettuale
Può darsi che un anziano lavavetri polacco incontrato a un semaforo sia stato, nel suo paese, “il più grande specialista della preistoria del socialismo”, come nel film di Costa-Gavras “La piccola apocalisse”, deliziosa satira della sinistra intellettuale dopo il crollo del Muro. Un’altra soluzione satirica, perfino più rocambolesca, potrebbe essere questa: un barbuto filosofo sloveno diventa una popstar culturale nell’occidente capitalista mettendo insieme Lenin e Lacan.
Può darsi che un anziano lavavetri polacco incontrato a un semaforo sia stato, nel suo paese, “il più grande specialista della preistoria del socialismo”, come nel film di Costa-Gavras “La piccola apocalisse”, deliziosa satira della sinistra intellettuale dopo il crollo del Muro. Un’altra soluzione satirica, perfino più rocambolesca, potrebbe essere questa: un barbuto filosofo sloveno diventa una popstar culturale nell’occidente capitalista mettendo insieme Lenin e Lacan, anzi suonando le loro carcasse a mo’ di xilofono, come nella “Skeleton Dance” di Walt Disney. Sembra la trama di una commedia grottesca post sovietica, ma è esattamente l’impresa che è riuscita, non si sa come, a Slavoj Zizek: rianimare cadaveri ideologici e teorici tra i più impresentabili con l’ausilio di film hollywoodiani, fumetti e cartoon. Lo hanno chiamato, non per caso, “il fratello Marx”, o l’“Elvis della teoria culturale”.
Al politologo John Gray dobbiamo una formula impeccabile: “Il comunismo, non più confinato alle tetre riunioni di trotzkisti stagionati o alle lungaggini dei seminari accademici, è stato reinventato come una sorta di cabaret intellettuale”.A Zuccotti Park, nell’ottobre scorso, Zizek annunciò la fine del capitalismo barattando Marx ed Engels con Hanna & Barbera: “Stiamo testimoniando l’autodistruzione del sistema. Tutti conosciamo la classica scena dei cartoni animati: il gatto raggiunge un precipizio ma continua a camminare, ignorando che non ha nulla sotto di sé. Solo quando guarda in basso e se ne accorge, precipita”.
E’ stata una gag degna dei Monty Python, tanto più che l’amplificazione del discorso era affidata al sistema responsoriale dei “microfoni umani”: Zizek sparava una delle sue, in un inglese anch’esso un po’ fumettistico, la folla gli faceva il verso ripetendo l’antifona. Non era chiaro chi stesse prendendo in giro chi.
La fama di Zizek ha del misterioso. Forse si deve alla sua capacità di “smerciare il più grande errore del secolo come intrattenimento d’élite, con un neobolscevismo modaiolo che promette al consumatore annoiato l’eccitante esperienza delle idee proibite” (di nuovo John Gray).
Forse invece ha a che fare con la “Ostalgie” e la passione per il modernariato d’epoca sovietica, la stessa che ci fa amare la grafica dei vecchi manifesti con le operaie forzute, le tappezzerie marroncine della Ddr, le Trabant e i cimeli d’epoca maoista. In Italia, senz’altro, un piccolo ruolo deve averlo giocato il suo aspetto più romagnolo che sloveno, e una certa somiglianza con Francesco Guccini: con quel panettoncino di barba e capelli, quelle t-shirt largheggianti, quella perenne aria da pizzaiolo accaldato, quelle “s” sibilanti (un vero tormento, se si pensa a quanto spesso usa, e con quale dispendio di saliva, l’aggettivo “obscene”), sembra sbucato da Via Paolo Fabbri 43.
Chi ha provato a prenderlo sul serio e a confutare il merito delle sue idee ha fatto sempre buchi nell’acqua. Il lungo saggio di Adam Kirsch uscito sul New Republic nel 2008, “The Deadly Jester”, raccoglieva sortite abominevoli di Zizek sul terrore giacobino e staliniano, sulla violenza politica, su tutto, ma suonava come la spiegazione di una barzelletta dopo che la risata è già stata ottenuta: un goffo e vano arrancare. “Chiedersi se Zizek è sincero è come chiedersi se un giocoliere è sincero”, notava un perplesso Terry Eagleton.
Quel che c’è di buono in Zizek è tutto nella sua spavalda frivolezza, o meglio nella parodia di serietà accigliata con cui parla di qualunque cosa, specie di argomenti di cui di tutta evidenza non sa un tubo. E poi, “Matrix” e la critica dell’ideologia, i cartoni animati di Pluto e il Super-Io sadico, le tradizioni ideologiche nazionali lette in analogia con i sistemi di W. C.: la sicumera con cui Zizek sa portare in giro per conferenze e raduni militanti la sua supercazzola ideologica impone quell’ammirazione che dobbiamo ai grandi affabulatori e maestri di paraculaggine, come il Manuel Fantoni di “Borotalco”.
Il problema, semmai, è che Zizek non fa più ridere. Già Eagleton notava che in certe sue opere recenti c’era “less clowning”, meno pagliacceria. I suoi ultimi libri, “Vivere alla fine dei tempi” e – uscito in questi giorni – “Benvenuti in tempi interessanti” (nato come postfazione all’edizione economica del primo), entrambi editi da Ponte alle Grazie, sono di una noia mortale, e riportano proprio “alle tetre riunioni di trotzkisti stagionati o alle lungaggini dei seminari accademici”. Zizek si sta via via rintanando in quel cantuccio filosofico dove i vari Badiou e Rancière s’interrogano sugli urgenti compiti storici di entità immaginarie quali “il comunismo” e “la filosofia”.
Dall’ultimo Zizek: “Il comunismo come movimento deve intervenire in queste impasse e il suo primo gesto deve essere quello di ridefinire il problema…”; “il nostro compito dunque è rimanere fedeli a questa eterna Idea di comunismo…”. Nei suoi libri, ormai, la quota di Hitchcock e di Paperino si assottiglia, e la parte del leone la fanno questi proclami da ciclostile, i letali accostamenti teorici da anni Settanta tra il dispositivo foucaultiano, l’apparato althusseriano e il “grande Altro” lacaniano, o le pedanterie politico-ereticali sullo Spirito Santo e il collettivo rivoluzionario. Prima come tragedia, poi come farsa, infine come rottura di coglioni.
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