Vite da stagista

Paola Peduzzi

C’è stato un momento, in America, in cui definirsi “intern”, stagisti, scatenava risatine e commenti non trascrivibili su carta. Erano gli anni di Monica Lewinsky, l’intern più famosa della storia americana, anni lussuriosi in cui la disoccupazione non era al 9 per cento e l’austerità era un concetto sovietico. Oggi gli Stati Uniti sono una “Intern Nation”, come recita il titolo di un famoso libro dell’anno scorso, e nessuno ride più (ci sono ancora magliette meravigliose con Bill Clinton con il sigaro e la scritta “Interns are cool”).

    C’è stato un momento, in America, in cui definirsi “intern”, stagisti, scatenava risatine e commenti non trascrivibili su carta. Erano gli anni di Monica Lewinsky, l’intern più famosa della storia americana, anni lussuriosi in cui la disoccupazione non era al 9 per cento e l’austerità era un concetto sovietico. Oggi gli Stati Uniti sono una “Intern Nation”, come recita il titolo di un famoso libro dell’anno scorso, e nessuno ride più (ci sono ancora magliette meravigliose con Bill Clinton con il sigaro e la scritta “Interns are cool”). All’inizio di marzo una ragazza ha scritto al New York Times dicendo: sto facendo uno stage di sei mesi, e lo sto trascorrendo facendo caffè e ritirando vestiti in lavanderia. So che spesso va così, ma “viola la legge, ed è davvero poco etico. C’è qualcosa che posso fare?”. Nella rubrica “The Ethicist” del Magazine del Nyt, Ariel Kaminer le ha risposto, in modo pratico: “Non c’è”.

    Alcuni intern invece si stanno ribellando. Uno ha citato in giudizio la Hearst Corporation: vuole fare una class action “in nome delle centinaia di stagisti non pagati nei magazine del gruppo”. Il Fair Labor Standards Act, del 1938, regola i casi di lavoro non retribuito, ma prevede sei condizioni, che hanno a che fare con le mansioni svolte. Per non sbagliare, Condé Nast ha cambiato le regole delle internship, scrivendo all’ultimo punto, in sostanza, che gli stagisti non sono al servizio privato dei diavoli che vestono Prada. La vittoria dei rivoluzionari? Secondo il New York Times sì, tanto che ha sguinzagliato i suoi stagisti nei campus a intervistare colleghi. E’ venuto fuori che lo sfruttamento, in termini di orario di lavoro, non c’è quasi più, le paghe sono misere, si fa spesso la punta alla matita del capo e andare a prendere il caffè è una routine. Però si sta con gente intelligente, a volte ci si innamora, è il lavoro che si vuole fare da grandi e per il resto – l’84 per cento dei casi – paga papà.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi