I suicidi solitari in Giappone e il fallimento di un modello produttivo
Negli anni Novanta c’era stata la Grande depressione, lo scoppio della bolla finanziaria e immobiliare, quello che gli esperti chiamano il decennio oscuro del Sol levante. Oggi il Giappone continua ad avere il triste primato di paese con il più alto tasso di suicidi al mondo, e il pericolo viene soprattutto dalle zone colpite dal terremoto e dal maremoto del marzo 2011. Gli ultimi dati della polizia si riferiscono al 2010.
Negli anni Novanta c’era stata la Grande depressione, lo scoppio della bolla finanziaria e immobiliare, quello che gli esperti chiamano il decennio oscuro del Sol levante. Oggi il Giappone continua ad avere il triste primato di paese con il più alto tasso di suicidi al mondo, e il pericolo viene soprattutto dalle zone colpite dal terremoto e dal maremoto del marzo 2011. Gli ultimi dati della polizia si riferiscono al 2010: sono 31.690 le persone che si sono tolte la vita, più del settanta per cento uomini. Nel mese di marzo il picco più alto, con la chiusura dell’anno fiscale. “La polizia li distingue in due categorie – dice al Foglio Andrea Ortolani, docente di Diritto comparato all’Università Gakushuin di Tokyo – e cioè da una parte coloro che comunicano le cause (circa ventiquattromila l’anno) e dall’altra chi non lascia nessuna motivazione”. La maggior parte dei suicidi nel 2010 sono avvenuti per problemi legati alla salute, “ma 7.438 persone, secondo i dati ufficiali di Tokyo, si sono tolte la vita esplicitamente per motivi economici”. Un problema sociale, che ha cambiato anche la disciplina dei risarcimenti mortis causa: “Se il suicidio avviene sul posto di lavoro e le motivazioni sono assimilabili al mobbing – spiega Ortolani – il risarcimento agli eredi è lo stesso degli incidenti sul lavoro”. E anche le assicurazioni sulla vita, che non dovrebbero pagare in caso di suicidio, aggiungono clausole per aggirare la legge.
Un paese che ha esportato nel lessico occidentale parole come kamikaze, harakiri, seppuku, risente di una tradizione in cui il suicidio è carico di significati rituali: “Basti pensare che anticamente se il leader moriva, anche i suoi più stretti collaboratori si uccidevano”, ci dice Maurizio Pompili, psichiatra del Centro per la prevenzione del suicidio dell’Università La Sapienza. Quello che deve affrontare oggi il Giappone è la morte attraverso l’alienazione dal mondo: il kodokushi, le morti solitarie. “E’ il suicidio delle relazioni interpersonali – aggiunge Pompili – il fallimento totale della società, dei rapporti con gli altri”. Le persone scelgono volontariamente di non uscire più, di non utilizzare più energia elettrica, chiudono i rapporti con tutti, tanto che i corpi solitamente si trovano dopo mesi. Il mese scorso tre persone sono state trovate morte in una casa a Saitama, a nord di Tokyo. E sotto il monte Fuji esiste una foresta dove ogni anno decine di giapponesi vanno a morire, da soli, in trentacinque chilometri quadrati di selva fittissima. “Quando viene meno la socializzazione – spiega lo psichiatra – vuol dire che qualcosa non va nel sistema. Il suicida matura una sfiducia non solo nei suoi cari più prossimi, ma nei confronti della comunità intera e nei suoi modelli socio-culturali. Come a dire che un paese leader, industrializzato, ha fallito con gli individui”.
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