Ritratto del Capo nella sua isola delle femmine, su in Padania

Cristina Giudici

Davanti all’immagine del vecchio Capo che piega la testa, quasi in lacrime, una volta tornato a casa dalla sua Manuela, sull’uscio della villotta di Gemonio, insieme a un moto di pietas sale alle labbra quasi un sorriso, un sorriso agrodolce per quest’uomo malato da otto anni, che in fondo è sempre stato prigioniero delle sue donne. A guardarlo ora, viene in mente di quando era uno spavaldo tiratardi, col sigaro in bocca, i Ray-Ban a goccia e lo sguardo malizioso, da “randa” di provincia.

    Davanti all’immagine del vecchio Capo che piega la testa, quasi in lacrime, una volta tornato a casa dalla sua Manuela, sull’uscio della villotta di Gemonio, insieme a un moto di pietas sale alle labbra quasi un sorriso, un sorriso agrodolce per quest’uomo malato da otto anni, che in fondo è sempre stato prigioniero delle sue donne. A guardarlo ora, viene in mente di quando era uno spavaldo tiratardi, col sigaro in bocca, i Ray-Ban a goccia e lo sguardo malizioso, da “randa” di provincia. Allora ammaliava chiunque. Astemio, teneva gli ospiti svegli fino all’alba a parlare delle sue visioni padane. E non c’era donna che gli dicesse di no. Gli si concedevano con il piacere che si prova davanti a un raro esemplare di maschio alfa, inventore dello slogan politico più misogino della democrazia italiana, “la Lega ce l’ha duro”. Ma questo era molti anni prima di scoprire che le donne, soprattutto quelle di casa, lo avrebbero usato, manipolato, per avere un posto al sole. Ché altrimenti sarebbero rimaste confinate nel loro contado, la Manuela a fare l’insegnante, la Rosi sindacalista senza poltrone. E anche quelle del movimento, devote come amazzoni di Gheddafi, quelle che hanno alimentato il culto della personalità. E così Umberto Bossi, una volta malato, è uscito dalla saga che ne aveva fatto “un animale politico” ed è rientrato, dalla porta di servizio, nella villetta che si era costruito a Gemonio – lui che aveva fondato la Lega lombarda in un monolocale con la Manuela, dove lei scriveva a mano i primi manifesti autonomisti – per rimanerci padrone-prigioniero per otto anni. Fino alla disfatta.

    Ed è proprio lì nel cortile di casa, rientrato dall’ospedale dopo l’ictus, che da leone che era si è trasformato in un perfetto sosia del Giovanni dei Legnanesi, il contadino ostaggio della moglie, la Teresa, e della figlia Mabilia, in questo caso figlia putativa, che ci tiene a vestirsi bene, a essere sempre a posto, fresca di parrucchiere, anche se ai piedi ha mocassini modesti e il gusto è restato quello dell’operaia che si è fatta strada nella vita, ma non ha avuto tempo per le raffinatezze. E che da sindacalista della Uil, lei che viene da un paesino di Brindisi, San Pietro Vernotico, giorno dopo giorno è riuscita a salire di grado nell’Eden padano e a farsi regalare dal Capo, anziché un gioiello, addirittura un sindacato. Il Sin.pa. Così tenace nella sua rincorsa al potere che, reclutata vent’anni fa mentre cercava di sfuggire a una colluttazione con dei sindacalisti della Cgil – così l’ha sempre raccontata il Senatùr – si dice abbia accettato la tacita vendetta della Manuela che, quando il suo “Giovanni” si ammala, decide che è arrivato il momento di uscire dall’ombra. Madre di tre figli, si era fin lì limitata a fondare la scuola Bosina, un istituto che insegnava agli allievi come rimanere attaccati alle proprie radici. Che poi non erano le sue, visto che è siciliana e questa cosa non è mai andata tanto giù alle guardie padane. Vero o verosimile che sia, per tutti ormai si è trasformata nella matrona ombra del movimento e non più semplicemente, e ossequiosamente, “la Manuela”: una tosta, che ha sempre guidato il marito nella direzione giusta perché si sa che dietro un grande uomo ci deve stare per forza una grande donna.

    Chissà se poi, quando tornava a casa dalle sue due donne, andava come nel cortile dei Legnanesi, dove il Giovanni si limita a dire “chi vusa pusè a vacca l’e sua”, per sottrarsi ai litigi domestici. O se dice alla Teresa “ma ti te se’ gelusa?”, gonfiando il petto come un gallo nel pollaio, “Teresa ti amo da morire!”, e lei gli risponde secca: “Sta su de doss, please johnny don’t touch me”. Acida, la Teresa è quella che alla zitella Mabilia dice: “Se ven fora quel digrazia’ che te sposa, l’è un miracul da scrivere nella Bibbia!”. Ma la “Badante”, il nomignolo cattivo che da tempo Rosi Mauro s’era guadagnata nella Lega, non ne aveva più bisogno, aveva vinto l’Enalotto. Ora che i magistrati sostengono di aver aperto il vaso di Pandora, i militanti dicono che i loro sospetti erano giusti da tempo. Si rammaricano di non essere riusciti e a liberare il Capo dalle tenaglie della moglie, che ha obbligato il marito all’unico vero errore della sua stramba ma anche gloriosa vita politica: mettere un figlio in politica, come ha detto lui stesso. Insomma l’Umberto paga lo scotto, proprio lui che non si è mai sottratto a una generosa pacca sulle chiappe alla Rosi, quando saliva claudicante sul palco di Pontida per eccitare la sua gente affamata di maschia indipendenza. Lei che si offendeva, quando veniva chiamata la Badante, come se fosse un’offesa il fatto che dopo la malattia la Manuela le avesse chiesto di affiancarlo, sostenerlo. E’ possibile che ci fosse una seria rivalità, fra la Teresa-Manuela e la Mabilia-Rosi, che poi negli anni si è trasformata in una strana intesa nel cortile di casa. E in un tacito patto per dividersi i ruoli: la Manuela gestiva da Gemonio le cose del partito per difendere i figli dall’assalto dei colonnelli, e la Rosi si prendeva quotidiana cura del corpo malato dell’ex leone della Padania. Una gestiva il partito famigliare, l’altra gestiva l’agenda del Capo con lo stesso entusiasmo con cui prima eseguiva gli ordini. Diventando la sua voce e il suo orecchio, un filtro per guardare il mondo da una finestra socchiusa. Vigilando sul popolo che pendeva fiducioso dalle sue labbra, senza sapere che il Signore degli anelli era stato privato del suo talento magico, sottratto dal malefico potere femminile. Chi aveva provato a rompere il cerchio, come Bobo Maroni ci ha raccontato una volta ridendo, ogni volta che si incontrava con la Rosi prima di finire dietro le quinte della commedia legnanese veniva gentilmente accolto da un vaso di fiori, tirato con autentica furia. La Rosi contava. Era anche entrata nel cda della Pravda padana e chiamava i direttori per dire chi e quando era autorizzato a rilasciare dichiarazioni all’organo ufficiale del partito. Negli ultimi anni, per sapere chi fosse diventato suo malgrado un dissidente, bisognava misurare il gradimento alla famiglia, e controllare se era sparito dalla Padania. Donna prudente, anche, visto che, standio alle intercettazioni, quando l’ex tesoriere Francesco Belsito le parla degli investimenti in Tanzania lei si limita a fare sempre lo stesso mugugno, un “mhh” alternato al massimo a un “porca Eva”.

    Imprigionato fra due donne forti, come un maschio familista e in disarmo, il Capo spesso si ribellava. Ogni tanto la Rosi spariva dalle foto di gruppo, e tutti si chiedevano se era finita. Ma poi lei riappariva, puntualmente, ben vestita come la Mabilia. La vera debolezza del Capo, le donne. In fondo, era diventato ostaggio anche delle donne del movimento, sempre più numerose, più brave a salire in alto, dalla gavetta delle sezioni al Parlamento senza bisogno di quote rosa. Perché nella Lega basta essere tenaci militanti per farcela, dicono tutte quelle che hanno scalzato qualche maschio solo perché il Senatùr, fiutate le loro capacità  guerriere, le lanciava nel firmamento. Così devote da alimentare con la loro fedeltà il culto della personalità. E poche hanno tradito. Così oggi c’è una donna nel triumvirato: Manuela Dal Lago, già vicepresidente del gruppo alla Camera, quella che voleva licenziare un po’ di commessi di Montecitorio perché le parevano troppi. Lei che è stata presidente della provincia di Vicenza con un solo motto: guerra agli sprechi. Arrivata alla Lega dal Partito liberale, cresciuta come il figlio maschio che suo padre non aveva avuto. E a chi le ha chiesto conto della sua ascesa, ha sempre risposto: “Avevo già esperienza politica e mi sono presa gli spazi che meritavo”. O come Silvana Andreina Comaroli, che ora fa parte del comitato amministrativo che deve affiancare il nuovo tesoriere. Perfetto esempio della fanteria femminile di Bossi. Capelli scuri, né lunghi né corti, laurea in Economia, quella tendenza al basso profilo che caratterizza la maggior parte delle leghiste. E poi tutte le altre che guidano le associazioni di volontariato del Carroccio o amministrazioni con dedizione, tenacia, devozione. E lui continua a ricambiare la loro fede.

    Al punto che ieri, quando tutti si chiedevano dove fosse sparito invece di incontrarsi con Maroni in Via Bellerio, il vecchio leone era andato in una chiesa di Affori, pare, per baciare i piedi di santa Giustina. Chissà se per chiedere perdono dei suoi peccati, o per un voto speciale alle donne che tanto gli hanno dato e troppo gli hanno tolto.