Il bunga banka di Tabacci
Irrealistico. Non vedo come possa rientrare in una coalizione o in un’alleanza che non prevedeva questo”. Così sbottò Basilio Rizzo, capolista di Sinistra per Pisapia, quando gli dissero che sulla grande vittoria del popolo arancione stava per planare Bruno Tabacci, tecnico esterno al Bilancio per la giunta di Milano.
Irrealistico. Non vedo come possa rientrare in una coalizione o in un’alleanza che non prevedeva questo”. Così sbottò Basilio Rizzo, capolista di Sinistra per Pisapia, quando gli dissero che sulla grande vittoria del popolo arancione stava per planare Bruno Tabacci, tecnico esterno al Bilancio per la giunta di Milano. L’ex democristiano, l’ex presidente demitiano della regione ai tempi della Prima Repubblica, il fuoriuscito dall’Udc in direzione Rutelli, l’imminente fuoriuscito da Rutelli in direzione non si sa ancora quale, il vagheggiato regista terzopolista per Milano quando a Milano si vagheggiò, un paio di giorni, un sindaco terzopolista. Insomma il politico-tecnocrate di cento stagioni amico di tutti i poteri forti e in particolare buon amico di Carlo De Benedetti, catapultato (a sorpresa solo per Basilio Rizzo) nella giunta del sindaco già avvocato di Carlo De Benedetti per il lodo Mondadori, nonché figlio dell’avvocato che fu di Tabacci quando cercarono di affondarlo nelle acque basse di Tangentopoli. Storse il naso la sinistra vendoliana, ma anche Stefano Boeri, che aveva perso le primarie da candidato del Pd prima di svenire in circostanze artistiche, sotto la mezza ipnosi di Marina Abramovic.
Male la prese anche Davide Corridore, economista pragmatico del Pd che per l’assessorato al Bilancio pareva il candidato ideale, e che finì dirottato a direttore generale del comune. Ma Pisapia non ci fece caso, troppo gli serviva, per bilanciare il movimentismo della sua constituency, l’ancoraggio del centrista di antico corso, benedetto da Repubblica e dai poteri economici ambrosiani, quelli che avevano dato il ben servito alla Moratti capitanati da Piero Bassetti. Bassetti che ora dice: “Se Formigoni avesse il coraggio di uscire da quel porcaio in cui si trova e di passare il testimone a un uomo come Bruno Tabacci…”.
Così Bruno Tabacci si è messo dietro al paravento arancione e ha iniziato a fare il tecnico dei tagli e dei dolori. A spiegare di aver trovato un comune con più debiti della Grecia, a tagliare le spese – Giacomo Beretta, ex assessore al Bilancio nella giunta Moratti, era stato tra i primi a denunciare: “La notizia del nuovo buco da 400 milioni nelle casse comunali è stata diffusa ad arte da Tabacci per creare un allarmismo ingiustificato, e avere così la scusa per introdurre nuove tasse a carico dei cittadini e dismettere aziende municipali efficienti come Sea e A2A” – ad aumentare il biglietto dell’autobus a 1,50. A varare per cinici motivi di bilancio il ticket dell’Area C, lui che a fronte di assessori entusiasti di girare in bicicletta confessa candidamente di aver già esaurito il bonus di ingressi che gli spetta come residente del centro storico, e per il resto di muoversi in taxi. E poi si è messo a vendere a pezzi la Sea, la società del comune che gestisce gli aeroporti. Roba che se ci avesse provato Letizia Moratti sarebbero scesi in piazza Duomo coi forconi. E se la sinistra mugugna e abbassa la testa, il leghista Matteo Salvini ha gioco facile a dire: “La maggioranza di sinistra, il sindaco e l’intera città sono ostaggio di un vecchio democristiano che ha deciso di vendere tutto quello che trova per strada”. Mentre sul caso Sea lo storico vicesindaco di destra Riccardo De Corato ha buon gioco a dire: “A Milano, a nemmeno un anno dall’insediamento dei rosso-arancioni e del loro ‘vento che cambia’, ci sarà il primo sciopero anti Pisapia”. Che in realtà, a ben guardare, è stato uno sciopero anti Tabacci. Contro il tecnico sobrio che di fatto ha in mano tutti i dossier che contano in città, anche perché svetta per competenza dentro al panorama non eccezionale di una giunta di sinistra massimalista a parole e mediatrice nei fatti.
E’ un po’ la storia politica di Bruno Tabacci, l’ambizioso “ragazzo spazzola” di Marcora, come lo battezza un antico sodale, in compagnia di Giovanni Goria, che da trent’anni incarna il punto di snodo tra i poteri economici e la politica di centro. Democristiano che non è mai piaciuto al mondo cattolico – troppo laica la base marcoriana e poi demitiana – che ha sempre avuto più rapporti con la finanza bianca che con i preti e da vent’anni è nemico giurato del potere formigoniano in Lombardia. Un grillo parlante sopravvissuto ai martelli di due repubbliche, un politico – per usare l’immagine di uno che lo conosce e lo apprezza da una vita come Giancarlo Galli – che “sembra sempre uno che sta lì, ma intanto vorrebbe essere altrove”.
Una carriera da golden boy, figlio della generazione dei basisti-banchieri, uomo di De Mita per le banche del nord, nonostante le sue ambizioni da politico di prima fascia, Tabacci è sempre un uomo di raccordo. Non è un caso se, nell’epocale scontro tra De Mita e Craxi, la defenestrazione di Tabacci dalla presidenza del Pirellone, sostituito da Giuseppe Giovenzana in pieno tripudio del Caf, segnò anche l’inizio della fine del regno di Ciriaco. Poi Tangentopoli fece il resto, spruzzando di fango anche lui. Le reazioni di Tabacci, oggi come allora, sono uguali: “Non ho toccato una lira”, disse allora. “Sulla Sea non è girato un caffè”, dice ora. Finì giustamente tutto in nulla, come per tanti altri. Solo che lui, il basista-banchiere, il puro tra gli impuri, della faccenda ha sempre dato una lettura diversa, un mantra insistito e indurito negli anni: la colpa di Tangentopoli non fu tanto far fuori una classe politica che se lo meritava, ma aver “creato Berlusconi, il quale ha cavalcato Mani pulite come se niente fosse”. Strana sindrome di Stoccolma, la trasformazione della vittima di una frettolosa Tangentopoli in un algido moralizzatore che adesso partecipa a incontri commemorativi con Di Pietro (“ma tra me e Di Pietro è finita due a zero per me”) e pontifica: “Ora è peggio di allora”. A Gianni Barbacetto per MicroMega, anno 2005, rilasciò un’intervista mozzorecchi: “La politica ha perso peso, la finanza ha preso il comando. Stiamo vivendo una stagione vergognosa in cui la politica non esiste più e i furbetti fanno ciò che vogliono”. Intanto, tra la crisi di una Repubblica e l’attesa della crisi di quell’altra, coltivava i rapporti con Vincenzo Maranghi quando, a fianco dell’erede di Cuccia e con Giorgio La Malfa, facevano la guerra ad Antonio Fazio su fondazioni bancarie e altro. E’ in quei tempi che si saldano gli ottimi rapporti con Carlo De Benedetti. Senza impedire quelli buoni con Marcellino Gavio e Salvatore Ligresti.
Ma ieri era ieri. Oggi Tabacci, quasi tecnico di stampo montiano, tiene nelle sue mani tutti i fili che contano a Milano. “Riesce a utilizzare il consenso di Pisapia per rassicurare i poteri economici della città, mentre Pisapia utilizza il consenso di cui Tabacci gode nel mondo economico per governare senza farsi sopraffare dalla sinistra”, dice il capogruppo pdl al comune, l’ex assessore Carlo Masseroli, protagonista – invero un po’ solitario anche nel centrodestra – di una dura opposizione a tutto quello che Tabacci fa e dice. E Tabacci, col suo inarrivabile complesso di superiorità (“è nato primo della classe”) guarda come sempre già oltre i ristretti confini del suo momentaneo regno. Ma per il momento, avendo il suo daffare a tappare i buchi del comune, cerca di vendere pezzi di mobilia. Si sta mettendo d’accordo con il presidente berlusconiano della provincia, Guido Podestà, per ridistribuirsi le quote di Serravalle. E soprattutto prova a vendere, valorizzare si dice, qualche pezzo della Sea.
E proprio Sea è diventata il luogo simbolico in cui tentare di decifrare, in un gioco di specchi come direbbe Casini, il ruolo e le mire di Bruno Tabacci. La vicenda Sea è istruttiva e divertente, e vale la pena di essere riassunta. Lo scorso dicembre il comune ha venduto il 29,75 per cento della società aeroportuale tramite un’asta in cui l’unico partecipante fu la F2i, il fondo di investimenti guidato da Vito Gamberale, che vinse la partita offrendo un solo euro in più della base d’asta. Niente di male, ma non proprio un trionfo per un’asta internazionale. Anche perché l’unico altro gruppo che pareva interessato, gli indiani di Srei, per una bizzarra disavventura toponomastica del loro manager arrivarono a Palazzo Marino con dieci minuti di ritardo per presentare le carte. Trovarono chiuso.
La cosa curiosa è però un’intercettazione spuntata qualche mese fa della procura di Firenze, in cui Gamberale direbbe a qualcuno che il bando per Sea era un cappottino su misura. Ma ancora più curioso, se possibile, è che l’intercettazione l’abbia pubblicata l’Espresso, il settimanale di CDB. E’ scoppiato il finimondo, anche se probabilmente sarà la solita tempesta di bolle di sapone. Giuliano Pisapia, in Consiglio comunale, ha perso il serafico aplomb e si è lasciato andare a una volgarità non da lui: “E’ deprimente che l’opposizione garantista di fronte ai bunga bunga strumentalizzi qualcosa di inesistente”. Tabacci è stato più sobriamente sprezzante, ma si intuisce che lo schizzo di fango lo abbia irritato di brutto. Bunga banka.
E’ probabile che non accada niente, che sia solo un’intercettazione come centomila: vuota. Ma mentre Masseroli, Salvini e De Corato si sbracciavano contro i bassi commerci della giunta, è notevole che persino Alessandro Sallusti, il combattente direttore del Giornale noto per non farne passare una alla sinistra, ha scritto: “I casi sono due. O Pisapia e Gamberale sono due ladri che si sono fregati i soldi dei milanesi, oppure il caso è l’ennesimo esempio di come in Italia sia impossibile concludere affari anche utili alla comunità senza finire nella palude del sospetto direi a prescindere. Io propendo per la seconda ipotesi. Pisapia è avversario politico da battere nell’urna, non usando la facile scorciatoia delle aule giudiziarie”.
Che cosa c’è dunque di tanto simbolico, nella vicenda Sea? Ad esempio l’iter giudiziario. L’intercettazione galeotta è dell’ottobre 2011 (la vendita non era ancora stata fatta). La procura di Firenze la trasferisce prontamente a Milano. Ma a Milano, dove di solito sono così solerti sulle faccende di politica e affari, ristagna in un cassetto. E’ il procuratore aggiunto Francesco Greco, capo del pool per i reati societari a registrare infatti il fascicolo nel cosiddetto “modello 45 K”, il “registro degli atti non costituenti notizia di reato”. Il pm della squadra di Greco che se ne occupa si pone, però, il problema se la questione non sia di competenza dell’altro pool, quello per i reati contro la Pubblica amministrazione, guidato dall’attivissimo procuratore aggiunto Alfredo Robledo. Così, qualche settimana dopo, il procuratore Edmondo Bruti Liberati fa sapere a Robledo che riceverà il famoso fascicolo. Peccato che mesi dopo Robledo abbia affermato “di non avere mai avuto questo fascicolo”, e di trovare difficile potersene occupare adesso, dopo che il fattaccio della vendita è stato concluso. Insomma l’intercettazione si era persa in un inedito (aero)porto milanese delle nebbie. Sul giornale on line linkiesta.it Alessandro Da Rold ha però scritto un gustoso articolo, che ha fatto saltare un po’ di nervi in procura: ricostruisce i rapporti tesi tra Greco e Robledo – pool per i reati societari vs. pool per i reati contro la Pubblica amministrazione – di cui la vicenda Sea-Gamberale sarebbe solo l’ultimo. In sostanza, fa intendere Da Rold, laddove Greco ama ormai procedere con i piedi di piombo, Robledo è invece propenso a intervenire a piedi uniti, ed è lui oggi ad avere tra le mani alcuni dei filoni d’inchiesta più importanti che gravitano come pericolose meteoriti attorno al sistema di potere politico lombardo. Infine la ciliegina del settimanale di CDB. Qualcosa non quadra.
La domanda che in tanti si fanno, a Milano, è che cosa sia successo tra CDB e Tabacci. Forse bisogna fare un passo indietro, e tornare alla politica. Quando Rutelli pensò di sbarcare a Milano con la sua Alleanza per l’Italia affidò proprio a Tabacci l’operazione di avvicinamento e gli affidò il ruolo di portavoce del neonato movimento. Non è mistero che la ex Tessera Numero Uno del Pd, già scocciato dalla creatura, abbia caldeggiato e appoggiato – in fondo è il suo hobby preferito – la nascita del nuovo soggetto. A quel tempo, CDB e Tabacci giravano volentieri nelle scuole milanesi a insegnare il rispetto della Costituzione. E il Terzo polo sembrava l’arma giusta per far fuori l’odiato Cavaliere. In questo senso, la giunta arancione-debenedettiana di Pisapia e Tabacci può essere considerata una trionfale prova generale. Poi è arrivato Mario Monti, con quel che ne consegue in termini di disagio per i lunghi progetti di CDB, che andavano dal definitivo regolamento dei conti con Berlusconi, all’organizzazione di un’area politica in grado di (etero)dirigere la sinistra, alla costruzione di una candidatura al Quirinale per il suo vecchio pallino politico, Romano Prodi. Come è noto, la svolta presa dagli eventi non piace affatto ai circoli di CDB. Strano ma vero, il primo a dirlo era stato proprio Pisapia. Poi, quando è sbarcato qualche settimana fa al Villaggio Zagrebelsky dello Smeraldo e ha detto la parola magica, “qui rischiamo che torna Berlusconi”, è diventato definitivamente l’idolo del popolo di CDB.
E Tabacci? Tabacci rema da un’altra parte. Anche se i percorsi dell’uomo che vuole sempre essere altrove, in una stanza più ampia, in una prospettiva più avanzata, in una convergenza più parallela, su una poltrona più alta, sono tortuosi da seguire. La sua piccola creatura, l’Api, inizia ad andargli stretta. Così all’Assemblea nazionale di qualche giorno fa ha dato il ben servito a Rutelli: “Nel 2013 non si può andare a votare con questa legge elettorale e con questi partiti… e questo riguarda il Pdl e il Pd, ma anche il Terzo polo che non può essere l’ennesimo tentativo di allargare l’Udc… Dopo le amministrative dobbiamo sciogliere l’Api in un più ampio movimento che saldi l’esperienza del governo per dare continuità ai successi di questi mesi e farli confluire in un soggetto in grado di essere un solido architrave”. Peggio ancora, per Tabacci bisogna respingere “l’idea pacchiana che questi tecnici siano qui per fare il lavoro sporco e poi tornano i politici. E’ fuori dalla realtà. Questo è un governo politico, non è tecnico”. Inutile chiedersi che effetto abbia fatto, al circolo CDB-Zagrebelsky. Inutile chiedersi quale grillo parlante potrebbe incarnarla, questa svolta politica che necessita di politici che siano però anche tecnici.
Lo snodo torna a Milano, anzi in Lombardia. Dove attorno al grattacielo di Formigoni l’opposizione e i tecno-centristi hanno ormai posto l’assedio. Così, mentre CDB lavora per Prodi e possibilmente per trovare “un Pisapia per la Lombardia”, in attesa di trovarne un altro per l’Italia, il tecnocrate dalle cento vite e dalle mille porte tesse la sua tela, e si ritrova giocoforza al centro di molti incroci, alcuni dei quali potrebbero portare in regione. Vero è che Tabacci, di suo, non ha mai mai brillato per consenso popolare. Tanto è stato sempre ben accetto e ben portato dai circoli bancari e finanziari, tanto scarso è stato il suo appeal nelle urne. Quando nel 2006 si candidò alle amministrative di Milano prese un migliaio di voti. L’ultima volta, in Parlamento, è entrato per il rotto della cuffia. La via per defenestrare il Celeste e imporsi poi come futuro candidato di centro e sinistra è ardua.
Intanto Tabacci lavora a quel che sa fare meglio, tessere i rapporti tra la politica e l’economia. Il più ambizioso dei suoi cantieri è quello della grande “multiutility del nord”, e se andasse in porto sarebbe davvero la nascita di un discreto impero economico di cui essere, se non il deus ex machina, quantomeno il nume politico tutelare. Grosso modo, l’idea è di riunire alcune ex municipalizzate, sfruttando anche il feeling politico tra amministrazioni di sinistra, per costruire una holding che vada dai servizi all’energia ai rifiuti. E’ il progetto SuperEdipower, che piace appunto a Piero Fassino e Tabacci, ma richiede una bella serie di acrobazie finanziarie e societarie, nonché accordi politici, su cui non tutti concordano. Si tratterebbe di unire i settori energia di A2A e di Iren (la multiutility nata dalla fusione delle municipalizzate di Torino e Genova) e di Enìa (che invece raggruppa le ex di Reggio Emilia, Parma e Piacenza), sotto l’ombrello di Edipower, società passata ad A2A. Potrebbe nascere un nuovo colosso, un grande produttore italiano di energia secondo solo a Enel. Per Tabacci si tratterebbe anche di sistemare i conti: A2A ha molti di debiti, e di recente lui ha litigato con Giuseppe Sala, presidente di A2A, affermando che quest’anno la società non dovrebbe distribuire dividendi, al che Sala gli ha risposto che “non sono i soci che definiscono i dividendi”). Che ci siano anche queste faccende a preoccupare De Benedetti, oltre alla sospensione della democrazia in Italia e al grave vulnus del beauty contest per il digitale terrestre? Lo pensano in molti. L’energia è strategia, e giustifica il pressing costante sul ministro dello Sviluppo, Corrado Passera. Dal cui tavolo passeranno prima o poi anche questi progetti, e non si vorrebbe mai che ci si dimenticasse anche di quelli che interessano Sorgenia, il gioiellino della Cir. Sta di fatto che ancora in febbraio l’Espresso aveva sparato una copertina che tratteggiava con toni demoniaci le supposte ambizioni politiche di Passera, in combutta addirittura con i ciellini post berlusconiani e sotto il manto del nuovo cardinale di Milano. In quel caso, Tabacci era tornato utile per un’intervista avvelenata in cui proprio lui, il laico demitiano che con Cl non ha mai avuto buoni rapporti, giungeva a rimpiangere don Giussani. Poi è cambiato il vento, e poco tempo dopo è arrivata la botta all’ex pupillo Tabacci sulla Sea.
Ma Tabacci è un tecnico di tre cotte, ha sempre un’altra partita da giocare in cui spendere il suo ruolo mediano tra politica ed economia. Per provare davvero la strada del Pirellone, dicono gli osservatori di cose lombarde, ha bisogno anche di coltivare i rapporti con il mondo cattolico. Lui, che ha sempre avuto più amici nella finanza bianca che in curia, regnanti Martini e Tettamanzi. E le cose non sono migliorate con Scola. Anche se ha destato curiosità che il settimanale Tempi, vicinissimo alla Cdo, lo abbia lanciato in una video-intervista come grande alfiere contro il registro pisapiano delle coppie gay (“Penso si possa andare verso un’estensione dei diritti civili”, ha detto, ma non “scimmiottare un rapporto così delicato e trasformarlo in un fatto che ha una rilevanza di natura costituzionale”).
Un inatteso assist, dall’uomo forte della giunta Pisapia, alle posizioni espresse pubblicamente dal cardinale Scola.
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