Il mistero di Erdogan
Dopo settimane di silenzio sorprendente, la Turchia torna a farsi sentire sulla crisi siriana. Nell’arco di cinque giorni, il premier Recep Tayyip Erdogan si è dapprima recato in viaggio a Teheran per una due-giorni di consultazioni e incontri con il presidente Mahmoud Ahmadinejad e la Guida suprema Ali Khamenei, quindi ha aperto la seconda Conferenza “Amici della Siria” tenutasi domenica a Istanbul.
Dopo settimane di silenzio sorprendente, la Turchia torna a farsi sentire sulla crisi siriana. Nell’arco di cinque giorni, il premier Recep Tayyip Erdogan si è dapprima recato in viaggio a Teheran per una due-giorni di consultazioni e incontri con il presidente Mahmoud Ahmadinejad e la Guida suprema Ali Khamenei, quindi ha aperto la seconda Conferenza “Amici della Siria” tenutasi domenica a Istanbul. L’esordio non ha deluso le attese di chi sperava di sentire da Erdogan prese di posizione forti: “E’ un imperativo morale per la comunità internazionale tutelare il diritto del popolo siriano all’autodifesa contro le violenze del regime di Bashar el Assad”, ha detto il premier turco. In concreto però, il tipo di intervento che Erdogan ha in mente non è armato, almeno per ora. “Dobbiamo far sì che le nostre coscienze prevalgano, c’è la necessità di un intervento morale”. Ankara non vuole i raid aerei su Damasco, perché sa che un conflitto cancellerebbe dieci anni di politica estera ispirata ad avere “zero problemi con i vicini”.
Poi c’è l’Iran. Sembra passata un’epoca da quando Erdogan, Ahmadinejad e Lula si facevano fotografare assieme dopo la firma, nel maggio del 2010, della Dichiarazione di Teheran sullo scambio di combustibile nucleare iraniano. L’appoggio di Erdogan ai ribelli siriani e la decisione di accettare l’installazione del radar Nato in Anatolia hanno complicato le relazioni con Khamenei, che mal sopporta il nuovo avvicinamento turco all’occidente. Anche per questo il viaggio in Iran ha assunto connotati rilevanti, a tratti misteriosi. Il premier turco è andato a Teheran per convincere Ahmadinejad e la Guida suprema ad abbandonare Assad, ha detto il viceconsigliere per la Sicurezza nazionale americana, Ben Rhodes. In cambio, Erdogan avrebbe offerto una mediazione sulla questione nucleare, forte anche del sostegno americano. I risultati della missione in Iran non sarebbero stati però quelli sperati, stando a quanto afferma Alaeddin Boroujerdi, capo del comitato sulla sicurezza nazionale di Teheran.
“Non siamo più del parere che Istanbul sia la sede adeguata per colloqui sul nucleare con il Gruppo del 5+1”, ha detto. Ufficialmente, la retromarcia iraniana è dovuta all’attivismo di Ankara sulla questione siriana. In realtà, come sospettano in Turchia, l’accusa di appoggiare i ribelli sarebbe solo un pretesto usato da Teheran per prendere tempo sul nucleare, anche perché era stato proprio il governo iraniano ad auspicare che i negoziati si tenessero a Istanbul. I turchi sono convinti che il destino di Assad sia ormai segnato e su questa base ritengono che prima o poi anche l’Iran rivedrà le proprie posizioni. D’altra parte, Khamenei sa che una manovra di palazzo a Damasco per defenestrare Assad è l’unico modo per continuare ad avere voce in capitolo sul futuro del vicino alleato. Sostituire il rais alawita con un sunnita segnerebbe la fine dell’alleanza tra Teheran e Damasco.
Abbandonate le resistenze dei primi mesi di guerriglia, “Ankara ha capito che la transizione in Siria non è più rinviabile”, dice Hugh Pope, analista dell’International Crisis Group. Sull’esito dell’incontro il mistero è comunque fitto. Dopo un’ora e mezza di faccia a faccia con Ahmadinejad, la conferenza stampa prevista e annunciata è stata annullata. Solo alcune ore dopo i media facevano sapere che Erdogan si trovava a Mashhad, città santa a 850 chilometri di distanza da Teheran, impegnato in un colloquio con la Guida suprema. La tv di stato iraniana annunciava che Khamenei aveva respinto le richieste turche sul destino della Siria, ribadendo “l’opposizione a qualunque interferenza straniera negli affari interni di Damasco”. Tuttavia, è la postilla finale a dire qualcosa in più sulla posizione di Teheran: “L’Iran rifiuta ogni piano riguardante la Siria proposto dagli Stati Uniti”, lasciando così aperta la possibilità che sia Ankara a gestire la crisi mediando per evitare un conflitto catastrofico.
Dopo la conferenza di Istanbul, Erdogan ha messo in campo un’azione diplomatica (e mediatica) straordinaria: ha accusato il Consiglio di sicurezza dell’Onu di essere complice delle violenze di Assad, “standosene con le mani legate mentre il popolo siriano muore”. Al contempo, però, ha riallacciato i legami con Washington. La decisione di aderire al sistema di difesa missilistico dell’Alleanza atlantica “è stata la più importante decisione adottata da Ankara nell’ultimo decennio”, sottolinea Soner Cagaptay, direttore del programma di ricerca sulla Turchia al Washington Institute, aggiungendo che “i turchi hanno capito che ospitando quelle installazioni sul proprio territorio sono stati di fatto legittimati come potenza regionale”. Recep Tayyip Erdogan ama essere amato: più attenzioni riceve, più si dimostra accomodante con gli alleati. Essere il grande mediatore nella crisi siriana è ora il suo obiettivo. Può dimostrare finalmente che la Turchia è diventata il baricentro della politica del Mediterraneo orientale, senza la quale è impossibile venire a capo dei più intricati rompicapI diplomatici. Si spiegano così i piani per per assistere i rifugiati (giovedì hanno attraversato le frontiere dell’Anatolia orientale 2.500 profughi) e la disponibilità ad adottare misure più aggressive (“anche con supporto militare”) contro Damasco per proteggere i civili, come ha ammesso Ibrahim Kalin, consigliere di Erdogan per le questioni mediorientali. I turchi sanno che nulla di quanto promesso da Assad sul rispetto del piano di pace sarà mantenuto, come dimostrano le intense attività delle Forze armate siriane in prossimità del confine turco prontamente segnalate da Davutoglu con una telefonata in piena notte al segretario dell’Onu Ban Ki-moon.
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