Le voci del libro

Stefano Di Michele

E’ il sorprendente ritorno della voce. La voce che racconta – una storia, una favola, un amore. Una morte, cento morti, mille battaglie. Un sentimento, un bacio, un addio, uno scompenso, uno stupore. La voce che sola racconta – voce che non  tuona, imbonisce, urla, truffa, spaccia, minaccia, implora; non voce fantozziana o carognesca o televisiva (la voce televisiva ha sempre qualcosa di falso, perché solo sulla voce non ci si può concentrare).

    “Un libro di poesie / è un autunno morto: / i versi sono le foglie / nere sulla bianca terra. / E’ la voce che li legge / è il soffio del vento / che li affonda nei cuori / intime distanze” (Federico García Lorca)

    E’ il sorprendente ritorno della voce. La voce che racconta – una storia, una favola, un amore. Una morte, cento morti, mille battaglie. Un sentimento, un bacio, un addio, uno scompenso, uno stupore. La voce che sola racconta – voce che non  tuona, imbonisce, urla, truffa, spaccia, minaccia, implora; non voce fantozziana o carognesca o televisiva (la voce televisiva ha sempre qualcosa di falso, perché solo sulla voce non ci si può concentrare: la figura richiede lo sguardo, il buffonesco, il cialtronesco, la mossa! la mossa! tocca al narratore in video, manco fosse Mimì Tirabusciò – nemmeno i più grandi, nel narrare davanti alle telecamere, possono dimenticare di esserci anch’essi, oltre la loro voce). La voce e basta – se può bastare, poi, solo la voce. Ma quando la voce basta, altro non pare necessario. Non figure, non colori, non nevrotizzanti spot o video cangianti o film o telegiornali bugiardi. Una voce, solo la voce, per giungere dove per assuefazione o mesta distrazione, spot e video e film e telegiornali non sanno più portarci. Ripartire dall’inizio –  il racconto: per carità, senza starci a mettere di mezzo Omero e nessuna Diva che abbia da cantare cose tanto impegnative: se c’è la voce, e la voce ha qualcosa da raccontare, si può arrivare quasi al miracolo dell’ascoltare – ché se nessuno quasi più sa raccontare, ancor meno sembrano quelli che sanno ascoltare.
    Ascoltare cosa? Un romanzo, per dire. Dei racconti. Poesie. Storie. Linguaggi – non la solita lingua. Non recitare, non amplificare, non troppo mimare con toni e sottotoni, non troppo saltelli di lingua tra gola e denti – quasi a farne un radiodramma, pur nella grandezza passata dei radiodrammi, dove sognavano idealmente abbracciati commesse e commendatori. Qui è altro. La cosa una volta più semplice a farsi – uno che raccontava, molti che ascoltavano – pareva mutata in faccenda di gran periglio: con un limite di attenzione fissato tra durata di un trailer e quello di una sit-com con risate preregistrate, mica sembrava di vedere in giro più tanta gente in grado di (intenzionata ad) ascoltare. Tutti ossessivamente a twittare (diretta figliazione dell’antica epica, crudele e caciarona, del “popolo del fax”), a mandare sms, a sculettare vanitosi su Facebook, a dire la nostra nei programmi in diretta, a telefonare in trasmissione, a far girotondi e piazzate: mai zitti un momento, e comunque sempre mai zitti per ascoltare altro. Ma sotto sotto – silenzio per silenzio, verrebbe da dire – si sono cominciate nuovamente a udire le voci: di bravi narratori di storie, si capisce e per fortuna – non solite voci di squinternati paraspirituali udite da squinternati terreni. Voci vere con storie fantastiche, non voci finte con storie improbabili.

    Che sono le storie che tutti conosciamo – o meglio: storie che tutti almeno sappiamo esistere, dall’Odissea al commissario Montalbano. C’è sempre stato, in passato,  un (anche) giustificato pregiudizio verso gli audiolibri. Americanata, si sospettava. Roba d’Oltremanica. I libri si leggono, riga dopo riga – miopia dopo miopia, pure. Al più, al massimo, una lettrice a domicilio – come Miou Miou in quel vecchio film francese di un quarto di secolo fa. E in fondo, è un po’ così che accade quando s’inizia un ascolto del genere: una lettrice o un lettore a domicilio, che portano in dono Omero o Cechov o la Yourcenar. Virginia Woolf o Natalia Ginzburg o Jane Austen. Anche il “Gesù di Nazaret” di Benedetto XVI, narrato da Ugo Pagliai, magari le “Notti bianche” di Dostoevskij affidate alla voce di Fabrizio Bentivoglio. Ma pure Benni o Pippi Calzelunghe o Peter Pan – sorridere, divertirsi, sognare. Si possono chiudere gli occhi – parecchio meglio chiudere gli occhi, per ascoltare (quasi, come Gauguin, un chiudere gli occhi per meglio vedere). O in macchina o sul tram o mentre si corre o in bici o in fila alla cassa del supermercato o in autostrada – sei al casello, cerchi affannosamente gli spiccioli, e intanto qualcuno ti sta narrando, con bella voce, della triste infelicità che covava nella camera azzurra svelata da Simenon. E’ un fenomeno in crescita, questo degli audiolibri, che occupa ormai scaffali in libreria, ha le sue classifiche di vendita, i suoi annunci di anteprime, i suoi idoli narratori – piccoli preziosi racconti e insieme fluviali narrazioni per decine e decine di ore – come Claudio Santamaria, che forse ha battuto ogni record registrando per intero la “Trilogia Millennium” di Stieg Larsson: volendo, oltre sessantuno ore filate. E perciò anche la possibilità, prima o poi, e sempre volendo, per qualcuno di mettere mano (cioè: orecchio) alla “Recherche” di Proust, disponendo, per le ore necessarie all’esteso capolavoro, di qualche tonnellata di madeleine…

    Molti attori – molti grandi attori – hanno scelto questa forma nascosta e sostanziale di narrazione. Adesso è il momento di un regista – anche attore, però. Di non facile concessione – seppure, in questo caso, di felice e sorprendente dispiegamento: Nanni Moretti. Per quasi undici ore Moretti legge tutti i racconti che compongono i “Sillabari” di Goffredo Parise – il libro (all’inizio i libri, a dieci anni di distanza l’uno dall’altro, erano due: “Sillabario n. 1” e “Sillabario n. 2”) più intenso, certo il più poetico, dello scrittore, libro di culto e di essenziali fragilità – dalla “A” di Amore alla “S” di Solitudine, perché alla “Z” Parise non giunse – e il suo non giungere così spiegò, “dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z. Sono poesie in prosa. Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore”. Uscirà la prossima settimana la lunga lettura di Moretti  (Emos Audiolibri, che ha pubblicato molte delle registrazioni più belle di questi anni). Una lettura piana, quasi confidenziale, nessun tono sopra le righe, un lento e leggero, e perciò ancora più emozionante, attraversare l’intera gamma dei sentimenti che esattamente quarant’anni fa (il “Sillabario n. 1” risale al 1972) cominciò a percorrere e a  edificare Parise. “Un giorno d’estate una donna di cinquant’anni con un bellissimo nome greco passò accanto a un fiume e guardando un prato di erba alta con i pioppi al di là dell’acqua ricordò un bacio…” – ecco, così: parole che non hanno bisogno di essere urlate, né troppo enfatizzate, per arrivare dove devono giungere – tra cuore e sguardo, vedere ciò che la donna dal nome bellissimo sta vedendo, poter ricordare con lei di quel bacio. 

    Nanni Moretti e Goffredo Parise non si sono mai conosciuti. Mai incontrati. Mai parlati. Ma Moretti ha amato molto i “Sillabari”, e Parise amò molto al suo apparire “Ecce bombo”, e del “bel film”, che vedeva la luce in quel cupo violento volgere al termine degli anni Settanta, e “del giovanissimo autore quasi esordiente Nanni Moretti”, scrisse in un lungo articolo (ripubblicato nel Meridiano Mondadori) sul Corriere della Sera. “Che cosa porta di nuovo al cinema italiano questo autore autentico sopravvissuto all’inautentico del ’68? Porta, prima di ogni altra cosa, un’aria di realtà, dunque di realismo. Obiettare che realtà e realismo non sono la stessa cosa è ovviamente facile – analizzò Parise –, ma dopo un decennio di ideologismo verbale incontrollato e permanente, la realtà è un po’ come il primo tozzo di pane dopo la carestia, cioè non soltanto qualche cosa che c’è, ma qualche cosa che si vorrebbe anche il giorno seguente”. E nei personaggi di “Ecce bombo” – persi nel labirinto verbale del loro perenne vagare in operoso nulla –  “né positivi né negativi”, vide altro: “Sono quello che un’utopia volterriana in atto, benché alla stato nascente, sembra proporre: la meravigliosa ignoranza della libertà, in ogni caso l’innocenza”. In quache modo, a distanza di decenni – e ormai decenni sono passati anche dalla scomparsa di Parise – Moretti rende il suo omaggio, con il libro più amato (“sei riuscuito a fare qualcosa di diverso da come si faceva ieri e da come si fa oggi”, scrisse Italo Calvino a Parise), allo scrittore che immediatamente amò il suo film. Un misurarsi e un curioso – amorevole, a sentire il modo leggero in cui Moretti attraversa il territorio dei sentimenti esplorato e descritto da Parise – ritrovarsi a distanza.

    C’è molto da ascoltare – oltre al Parise dai prossimi giorni – in questa biblioteca che esclude gli occhi, ma lo stesso richiede una qualche forma di partecipazione. Il tono varia, da lettore a lettore, e certo da testo a testo – non con lo stesso tono, si capisce, legge Maddalena Crippa “L’opera al nero” di Marguerite Yourcenar,  Marina Massironi le storie di Pippi Calzelunghe e Giovanna Mezzogiorno “Le piccole virtù” della Ginzburg – ma in genere la maggiore efficacia è data proprio dalla mancanza di enfasi: che niente c’entra, quando si ascolta una storia, con la mancanza di partecipazione, e dunque di emozione. I testi che forse bisognerebbe per primi ascoltare sono quelli che abbiamo già amato – riviverli in una forma diversa, una diversa forma di coinvolgimento. E così, i più bravi lettori sono proprio quelli che non invadono per intero, con la loro voce, tutta la gamma delle sensazioni che l’opera può provocare, ma lasciano spazi dove chi ascolta può ritrovare molto o qualcosa di ciò che aveva amato, e persino scoprire qualcosa che i suoi occhi avevano letto ma non visto (ascoltato). Ci sono autori che preferiscono fare da soli – e dopo averlo scritto, vi leggono il libro. Lo ha fatto Camilleri – e il curioso e divertente impasto linguistico da lui inventato rende certo molto bene – e lo hanno fatto altri: da Sandro Veronesi con “Caos calmo” a Gad Lerner con “Scintille” (che trova anche, nei raffinati manufatti, personale consolazione per il futuro, “immaginando una vecchiaia in cui facessi troppa fatica a scorrere le pagine da solo, mi rassicura tantissimo l’idea di poter godere di questo strumento”),  da Francesco Piccolo con “Momenti di trascurabile felicità” a Sandra Petrignani con “La scrittrice abita qui” a Gianrico Carofiglio con i suoi romanzi gialli… Ma la maggior parte sono letture – ovviamente inevitabili per gli autori defunti – di attori professionisti come Toni Servillo, Marco Baliani con “Il giardino dei Finzi-Contini” di Bassani, Valerio Mastandrea e i noir marsigliesi di Jean-Claude Izzo, “è stata durissima, stavo per diventare pazzo. Cinque giorni senza requie. La lettura per me è un momento intimo, solitario, quindi ho sofferto…”. Claudio Santamaria ha fatto diverse letture, e molto diverse tra di loro, compreso “Il grande Gatsby” di Fitzgerald, e al settimanale Marie Claire – da tanto mestiere e tanta passione praticamente sedotto, “con quella voce, Santamaria avrebbe potuto leggere una lista di verbali d’assemblea, un po’ come il grandissimo Gassman che per sfottersi (sfotterci?) leggeva, con la stessa intensità dantesca, i menù: “Primi piatti: rigatoni con pajata…” – ha spiegato la sua scelta (e non solo sua) di una lettura “più sottile, meno caricata”, perché “c’è un solo attore che legge, e che secondo me deve diventare quasi invisibile per far posto alla fantasia dell’ascoltatore, propria della lettura”. Una strada – forse quella necessaria, nel caso di audiolibri nati in studio. Certo non quella scelta dall’immenso Carmelo Bene per il suo “Cuore”, il suo “Pinocchio” o le sue strepitose “interviste impossibili” alla radio negli anni Settanta. O dallo straordinario Paolo Poli nelle bellissime “Avventure di Pinocchio” – sfumature e tonalità che “mettono in scena”, oltre che narrare. Claudio Carini, attore di prosa e produttore di audiolibri – ha inciso molti classici, Omero e Leopardi, Petrarca e Boccaccio, Pirandello e Svevo – ha spiegato che “la lettura ad alta voce non è l’ultima trovata del Ventunesimo secolo per la gioia di ascoltatori, attori ed editori, ma affonda le sue radici nel passato. Proviamo a pensare a Omero: se mai è esistito, la sua professione non era quella dello scrittore, ma quella del ‘cantore’. ‘Iliade’ e ‘Odissea’ venivano dette e tramandate a voce alta. Ma anche in tempi più vicini, tutto ciò che è stato scritto in endecasillabi è stato pensato per la lettura ad alta voce. Pensiamo all’‘Orlando furioso’, alla ‘Gerusalemme liberata’, alla stessa ‘Divina Commedia’. O pensiamo al teatro: una volta non si diceva ‘sono andato a teatro a vedere’, ma si diceva ‘sono andato a teatro a sentire’…”.

    La voce, così, al centro: il suono, lo srotolarsi dinnanzi agli occhi (chiusi) di chi ascolta, di un universo che forse ha dentro – però muto, ancora. Il premio Nobel Günter Grass fece qualche anno fa una serie di serate a Lubecca con la lettura integrale del suo romanzo “Il rombo”, destinato in seguito a diventare un audiolibro – trentacinque persone per volta, nove euro a testa per assistere. In biblioteche, circoli Arci e librerie, in quel di Bologna, lo scrittore Paolo Nori, gran cultore della letteratura russa, da parecchi mesi fa pubblica lettura, una parte per volta, di diversi capolavori – da “Un eroe dei nostri tempi” di Lermontov a “Padri e figli” di Turgenev, dalla “Figlia del capitano” di Puskin alle “Anime morte” di Gogol – che poi (gli uditori incantati come gli uditori assenti) possono riascoltare registrate. Si riprende il suo spazio, la sua fascinazione, la voce umana (pur non essendoci traccia, al momento, di un Cocteau non affidato alla voce imperdibile della Magnani). Siamo alle tesi di laurea sul fenomeno (si trova traccia di quella di Rosanna Pasta, dicembre scorso a Roma: “L’audiolibro: strumento didattico e prodotto editoriale”), e nelle scene fondamentali di un film struggente come “Hereafter” di Clint Eastwood, la vita di uno dei protagonisti, Matt Damon, è scandita dall’ascolto di audiolibri di Dickens. E all’estero, raccontava il Los Angeles Times, attori come Dustin Hoffman e Susan Sarandon, Nicole Kidman e Kate Winslet, stanno per realizzare la lettura di alcuni capolavori letterari per Amazon.

    Al lettore-regista Moretti la compagnia non potrà che fare piacere. “Una domenica di gennaio del 1942, una signorina di una certa età dai capelli crespi e rossicci raccolti a chignon decise di andare al cinema…”. Ecco fatto. Così leggerà – lettera C di “Cinema”, tra “Casa” e “Cuore”, nei “Sillabari” di Parise (e un po’ suoi).