Il Carroccio dei vincitori

I piani di Maroni per il dopo Bossi non prevedono il triumvirato

Salvatore Merlo

 Il triumvirato non basta a Roberto Maroni, la convivenza con l’alterno alleato/avversario Roberto Calderoli gli sta stretta, e stasera a Bergamo i militanti riuniti per ascoltarlo non assisteranno soltanto a una investitura, al ratto della corona che fu di Umberto Bossi, o a un pubblico processo di “quelli che hanno imbrattato di merda la Lega” e che “vanno espulsi”.

    Prima la presa del potere, poi la rifondazione, la revisione ideologica del Carroccio con l’aiuto di Giulio Tremonti (se l’ex ministro dell’Economia ci starà e si farà un po’ più umile). Il triumvirato non basta a Roberto Maroni, la convivenza con l’alterno alleato/avversario Roberto Calderoli gli sta stretta, e stasera a Bergamo i militanti riuniti per ascoltarlo non assisteranno soltanto a una investitura, al ratto della corona che fu di Umberto Bossi, o a un pubblico processo di “quelli che hanno imbrattato di merda la Lega” e che “vanno espulsi”. Maroni vuole gettare i semi della mossa che completa il suo putsch: il triumvirato condiviso con Calderoli e Manuela Dal Lago non è previsto dallo statuto, è una formula illegale; va al contrario nominato un commissario che porti entro un mese al congresso e all’elezione del nuovo capo, il segretario, cioè Maroni medesimo.

    Rotolano le teste di quelli che vorrebbero resistere, o sono sospettati di poter resistere. “Le dimissioni non bastano”, dice Matteo Salvini, la guardia di questa rivoluzione maroniana che, come tutti i colpi di stato, non è precisamente un pranzo di gala. “Devono andare fuori dai coglioni”, dice il vecchio Erminio Boso. E Calderoli? Il colonnello ex potentissimo è sempre più  intimidito dal mormorio sospettoso che intorno a lui si è fatto ormai gran vociare su quelle “telefonate con Aldo Brancher”, l’uomo che assieme a Calderoli e Giulio Tremonti fece fare pace a Berlusconi e Bossi dopo il ribaltone del 1994. Il nome di Brancher, intercettato, fa capolino qui e là nell’affaire del tesoriere leghista Francesco Belsito, ma per Calderoli è ancora solo un fantasma giudiziario, gossip contundente, niente di più, eppure abbastanza da alimentare le secrezioni irrazionali della tremarella, una psicosi da cospirazia sovietica. “Ci saranno nomi nuovi, altri indagati, avvisi di garanzia, rivelazioni”, dicono gli amici di Maroni al Foglio, e dirlo non costa niente, anzi accende e alimenta il mood giacobino. E così forse non stupisce troppo che Calderoli ieri abbia chiesto anche lui le dimissioni di Rosi Mauro dalla vicepresidenza del Senato. Si è piegato, Calderoli, ha preso posizione a fianco della fazione vincente e contro “il cerchio magico”, contro Rosi “la nera”, che pure gli è stata amica e alleata nel partito (e fuori del partito).

    Renzo Bossi, il Trota, il figlio prediletto e mal sopportato da Maroni si è dimesso dal Consiglio regionale lombardo, dicono che lo abbia costretto Bossi padre, sempre più incline a rinculare di fronte all’avanzata dei pm e di Maroni. La guardia del corpo di Renzo/Trota, l’autista di tutti i giorni, ha tradito il suo principe come un pretoriano del basso impero: “Ritiravo per lui i soldi del partito. Ero il suo bancomat”, ha detto in una intervista, e in un video, pubblicati dal settimanale Oggi. Il clima è cupo e le manovre politiche si fanno torbide nei dedali sotterranei che collegano le redazioni dei giornali agli uffici di pubblica sicurezza, alle procure, alle segreterie di partito. Le rivelazioni giudiziarie si riversano millimetriche sui quotidiani, cadenzando la marcia dell’ex ministro dell’Interno. E la Lega è ormai un campo di battaglia spietato, malgrado Maroni abbia promesso alla signora Bossi, Manuela Marrone, di non volersi accanire oltre contro “la famiglia”. Non si fanno prigionieri, il partito va conquistato, le dimissioni dei nemici non sono sufficienti: c’è una lista di proscritti già condannati all’espulsione, Rosi Mauro, il Trota e tutto il gruppo tribale e familistico che frequentava casa Bossi, Marco Reguzzoni, Federico Bricolo, Monica Rizzi… “Fuori dai coglioni”.
    Maroni per adesso è avvolto dai fumi della battaglia, e fa il barbaro sognante. Ma da tempo guarda alla “sua” Lega, quella che sarà, con occhi iniettati di politica. Duro in Padania, moderato in Italia, agguantata la corona di Bossi cercherà di mandare in soffitta anche l’armamentario folcloristico e un po’ grottesco di corna celtiche, ampolline sacre, birra e salsicce, che pure hanno fatto la fortuna strapaesana della Lega. Guarda ai partiti di opposizione in Europa, Maroni. Pensa che si debba contrastare la tecnocrazia delle “elité che vogliono il potere senza la responsabilità”; e come tanti leghisti anche lui ha letto il libro di Giulio Tremonti. Certo non si fida, ma per rifondare la Lega ha proprio bisogno della densità furbesca e dottrinaria del critico dei poteri mondialisti, del nemico di Mario Draghi e delle “élite tecnocratiche”. Ce l’ha già in casa, deve solo decidere se tendergli la mano o abbatterlo assieme agli altri.
     

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.