Mr Zuckerberg e lo strike preventivo

Paola Peduzzi

Anni a parlare della dottrina della guerra preventiva, “first strike”, guerre per i diritti umani, guerre per il petrolio, armi di distruzione di massa, bunker, scontro di civiltà e poi, un giorno, un ragazzo che non ha nemmeno trent’anni e che vive in uno dei posti più liberal del mondo – la Silicon Valley, California – lancia il primo attacco preventivo in versione hi-tech.

    Anni a parlare della dottrina della guerra preventiva, “first strike”, guerre per i diritti umani, guerre per il petrolio, armi di distruzione di massa, bunker, scontro di civiltà e poi, un giorno, un ragazzo che non ha nemmeno trent’anni e che vive in uno dei posti più liberal del mondo – la Silicon Valley, California – lancia il primo attacco preventivo in versione hi-tech. L’acquisto di Instagram da parte di Mark Zuckerberg, genio sociopatico che guida il colosso della socialità on line Facebook, non è altro che uno strike preventivo, del valore di un miliardo di dollari, per mettere le mani su un business che per ora non ha rendite, ma domani chissà.

    Instagram è una società nata un anno e mezzo fa dall’idea di due ragazzi, fino a qualche mese fa contava quattro dipendenti, compresi i fondatori, e aveva gli uffici in quella che fu la prima sede di Twitter, pareti grigie, lampade Ikea, quattro scrivanie in mezzo alla stanza, una attaccata all’altra per formare un tavolo grande. Dall’inizio dell’anno la sede è stata spostata nel palazzo di fronte, gli uffici sono più grandi, i dipendenti sono diventati tredici e da tempo molti sono interessati all’acquisto. Pure se Instagram non produce ricavi. Nessuno. Non ha un modello di business pensato per produrre reddito: è un’applicazione che permette di condividere foto con gli amici – e di lavorarle con effetti favolosi. Fino a qualche settimana fa Instagram si poteva usare soltanto sull’iPhone, ora va anche sugli smartphone che usano Android e, nonostante operi in un mercato molto affollato, è diventato un prodotto di culto – “la favola del web che tutte le start-up sognano”, ha detto un’esperta al New York Times – con più di 30 milioni di iscritti.

    Per un’azienda senza ricavi, Mark Zuckerberg ha speso un miliardo di dollari, che è un po’ come l’Inghilterra che si mette a fare un caos tremendo sulle Falkland, trent’anni dopo, perché sa che nel mare sotto alle isole ci sono giacimenti inesplorati sui quali vuole mettere bandiera britannica. Instagram è un giacimento esplorato da milioni di utenti che ovviamente fanno gola a un social network, e con tutta probabilità Zuckerberg ha già in mente un progetto per trasformare il nuovo arrivato in una macchina sputa soldi. Un progetto che valga se non un miliardo di dollari – in quella cifra sono compresi l’effetto sorpresa e il messaggio ai rivali: questa è roba mia, giù le mani – qualcosa di molto simile, che giustifichi l’investimento.
    Poiché di attacco preventivo si tratta, non mancano le teorie del complotto. Molti si sono lamentati che, una volta integrate le aziende, Facebook avrà accesso a informazioni personali date a Instagram: a loro insaputa hanno dato nuove armi al nemico, come se non sapessero che una volta che hai immesso i fatti tuoi nel Web (e sei libero di non farlo) sei a rischio di Grande Fratello. Altri vivevano Instagram come un’alternativa a Facebook, un piccolo angolo di mondo in cui Zuckerberg non aveva ficcato il naso, e ora si sentono traditi. I fondatori di Instagram, Kevin Systrom e Mike Krieger, hanno fatto sapere che Instagram continuerà a vivere, “is not going away”, si troverà un modo per integrare i due sistemi, e Facebook ha già detto che l’azienda acquisita resterà un’unità indipendente. Ma pochi ci credono, perché come scriveva ieri il Los Angeles Times, è una questione di libertà: “Non è che Zuckerberg sia un cattivo ragazzo, è che lui e la sua visione di come l’umanità debba interagire nell’universo digitale sembrano sempre più inevitabili” (che è come dire che si è costituita una dittatura: nelle teorie del complotto si finisce sempre per confondersi su chi è buono e chi è cattivo).
    Ma il rischio vero non riguarda la dottrina militare, bensì quella economica. Come ha scritto l’Atlantic, è bene che iniziamo a rassegnarci: la “Social Media Bubble”, la bolla dei social network, è qui. Facebook compra per un miliardo di dollari un’azienda che non vale nemmeno un decimo di quel valore. Groupon, il colosso mondiale dei coupon, è entrato in Borsa alla fine dell’anno scorso e sembrava un investimento più che sicuro, ma già l’Ipo non era andata come prevista e ora i manager stanno rimettendo mano ai dati forniti al mercato pochi mesi fa, perché non sono fedeli alla realtà: mentre il titolo tocca il punto più basso, c’è chi parla di un nuovo caso Enron. Anche sul successo di Twitter le versioni sono discordanti, c’è chi dice che è destinato a seppellire Facebook per sempre e chi mette a confronto i numeri (Twitter è di due anni più giovane di Facebook): i ricavi pubblicitari dell’anno scorso di Twitter sono pari a 139,5 milioni di dollari, quelli di Facebook valgono 3,15 miliardi di dollari – se rincorsa c’è, sarà lunga.

    Negli ultimi due anni ci sono stati molti episodi in cui aziende della new economy si sono rivelate sopravvalutate, anche se gli ottimisti ripetono un antico adagio: se si parla tanto di una bolla, vuol dire che la bolla non c’è. Nel caso, è meglio stare all’erta.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi