Se Marchionne si comprasse il manifesto? Qui si spiega perché non sarebbe così strano
Comprare giornali come hobby. Forse annoiati dal collezionare vecchie automobili e stampe antiche, un bel po’ di ricconi americani ha iniziato a investire in quotidiani cartacei e on line sull’orlo della chiusura. Non si tratta di inguaribili romantici innamorati del fruscio delle pagine piene di inchiostro, né di investitori che non sanno quello che fanno.
Comprare giornali come hobby. Forse annoiati dal collezionare vecchie automobili e stampe antiche, un bel po’ di ricconi americani ha iniziato a investire in quotidiani cartacei e on line sull’orlo della chiusura. Non si tratta di inguaribili romantici innamorati del fruscio delle pagine piene di inchiostro, né di investitori che non sanno quello che fanno. Parlando ai suoi azionisti nel 2009, Warren Buffett spiegò che, di fronte alle “perdite infinite” che i giornali di tutto il mondo stavano subendo, lui non sarebbe stato disposto a spendere alcuna cifra per la maggior parte di essi. Come non detto, alla fine del 2011 Buffett si è comprato l’Omaha World-Herald, giornale regionale in crisi come la maggior parte dei quotidiani di media grandezza in America.
A parlarne è stato in questi giorni David Carr, che sul New York Times ha raccontato di come negli ultimi sette anni l’intera industria delle news statunitense si sia praticamente dimezzata. Ma se i giornaloni in qualche modo si barcamenano e i piccoli conservano la fetta di lettori affezionati che permette loro di sopravvivere, sono i medi a essere più in crisi. E’ qui che entrano in gioco i “baroni”, come li chiama Carr sul Nyt: generosi magnati che, incuranti delle perdite a cui vanno incontro, rilevano questi giornali a rischio chiusura. E’ il caso di Douglas F. Manchester, ricco costruttore che si è appena comprato il San Diego Union-Tribune, e di Donald Sussman, manager di un hedge fund, filantropo e marito di una parlamentare del Maine, ha da poco acquistato una partecipazione nella compagnia proprietaria del Portland Press Herald.
C’è forse qualcosa nella crisi apparentemente senza sbocco in cui da qualche tempo sono caduti i giornali di cui questi tycoon si sono accorti e che al resto del mondo è sfuggito? Qualche possibilità di fare soldi facilmente e subito? La domanda è oziosa, la risposta scontata: no. Lungi dal produrre profitti immediati, un giornale di proprietà può servire a creare un altro tipo di valore: Manchester a San Diego sta apertamente facendo sostenere al suo nuovo giornale una campagna a favore dei costruttori della zona, e il conflitto di interessi di Sussman in Maine è più che palese. Uno degli affari che più ha fatto discutere è quello dell’acquisizione, da parte di un cartello di imprenditori, del Philadelphia Media Network, società che riunisce le due testate storiche della città, l’Inquirer e il Daily News, e il giornale on line Philly.com. Il problema è che tra i nuovi proprietari ci sono anche George E. Norcross III e Lewis Katz, più volte presi di mira dai due quotidiani per i loro affari.
Di fronte a tutto ciò l’editorialista collettivo, per antonomasia libero da ogni condizionamento editoriale, alza il sopracciglio e scuote la testa. Ma, scrive Carr, questo tipo di morale – seppur giusta – appartiene al passato e non è più riproponibile, oggi che “vendere un giornale è come cercare di vendere un Humvee (mezzo militare di enormi dimensioni, ndr) usato”. Meglio difendere un’ideale indipendenza editoriale ma non riuscire a farsi leggere da nessuno per mancanza di fondi, o accettare la nuova proprietà anche se in passato è stata oggetto di numerosi attacchi a mezzo stampa? Carr non ha dubbi, sostiene che la nuova proprietà potrebbe portare più benefici che danni e racconta di come Norcross e Katz abbiano subito richiamato a dirigere l’Inquirer l’ex Pulitzer William K. Marimow, simbolo di indipendenza del giornale di Philadelphia negli anni passati.
Questo nuovo assetto dell’editoria giornalistica americana non è una novità, spiega ancora Carr: prima della Seconda guerra mondiale i giornali erano di proprietà di politici e uomini d’affari che li utilizzavano per promuovere i loro programmi. Oggi non è molto diverso, a patto che ai lettori sia chiaro che il quotidiano che stanno sfogliando o cliccando è sostenitore di interessi particolari. Ma prima di gridare a priori alla perduta libertà di stampa, ci si ricordi che innanzitutto c’è un giornale che non sta chiudendo. Finché c’è qualcuno che mette soldi per produrre notizie c’è speranza. I guadagni arriveranno (forse).
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