Conti cattivi senza sviluppo

Aggredire il debito oppure no? Sfida tra iperrealisti e ripresisti

Stefano Cingolani

Undici miliardi di Bot tutti collocati, anche se con rendimenti più alti per i titoli annuali (2,84 contro 1,49 per cento dell’asta precedente), consentono di tirare un sospiro, in una giornata di Borse calme dopo la fibrillazione post pasquale. Ma nessuno si fa illusioni. Colpa della Spagna (tre stangate in cinque mesi), alla quale Corrado Passera aggiunge anche Germania, Stati Uniti e Cina.

    Undici miliardi di Bot tutti collocati, anche se con rendimenti più alti per i titoli annuali (2,84 contro 1,49 per cento dell’asta precedente), consentono di tirare un sospiro, in una giornata di Borse calme dopo la fibrillazione post pasquale. Ma nessuno si fa illusioni. Colpa della Spagna (tre stangate in cinque mesi), alla quale Corrado Passera aggiunge anche Germania, Stati Uniti e Cina. O magari della presidente uscente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che prende le distanze dal governo e si becca l’ira di Mario Monti. Mentre il Wall Street Journal accusa la deludente riforma dell’articolo 18. Colpa di una crisi non risolta, scrive Martin Wolf sul Financial Times: l’Eurozona è stata salvata dal presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, non risanata. Chi compra titoli pubblici teme le incertezze politiche in Francia (il primo turno delle presidenziali è tra dieci giorni) e soprattutto in Grecia (si voterà a maggio).

    Per l’Italia, la convinzione più diffusa è che, dopo il rigore, ci sia bisogno di una fase sviluppista. Lo dice chiaramente Bill Emmott (ex direttore dell’Economist) sulla Stampa: “Se è davvero determinato ad attenersi al Patto fiscale europeo, Monti avrebbe bisogno di varare un’altra serie di manovre di bilancio, aumenti del prelievo fiscale e tagli di spesa”. Nel governo tutti lo negano, ma tutti ne parlano. E si confrontano già due partiti: gli iperrealisti e i ripresisti (“agire per la ripresa”, raccomanda anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano) divisi a loro volta in correnti.

    Tra i primi c’è Piero Giarda che tiene i rapporti con il Parlamento ed è un grande esperto di spesa pubblica. La studia da vicino fin da quando entrò nella commissione tecnica del Tesoro, nel 1991, e scoprì che una penna Bic poteva costare da trecento a tremila lire. Ora promette quella spending review avviata da Tommaso Padoa-Schioppa nel 2007, messa in naftalina da Giulio Tremonti e rilanciata con il governo dei tecnici. Giarda però ha detto senza mezzi termini che non si possono ridurre le imposte, facendo infuriare la Confindustria (e non solo), mentre sulle uscite dello stato, una volta ridimensionate le pensioni e congelati gli statali, bisogna intervenire con il bisturi.

    La tesi ufficiale è che il debito pubblico comincerà a diminuire dal 2014 grazie al bilancio in pareggio, un solido attivo al netto degli interessi e una crescita del prodotto lordo nominale superiore ai due punti. Non sarà facile perché la recessione morde e il governo, ha rivelato ieri il viceministro dell’Economia, Vittorio Grilli, rivede al ribasso le stime per quest’anno. In ogni caso, affinché il debito raggiunga il 60 per cento del pil, bisogna togliere quasi mille miliardi. Possono bastare tagli e tasse?

    Alberto Alesina e Francesco Giavazzi innalzano la bandiera di un abbattimento drastico e strutturale della spesa. I due economisti ne hanno fatto una campagna sul Corriere della Sera, dopo quella contro le liberalizzazioni mancate o incomplete, anche se non dicono dove intervenire. Se prendiamo i dati Ocse che rendono comparabili bilanci pubblici stilati spesso in modo diverso, la spesa italiana al netto degli interessi era arrivata nel 2009 al 47,4 per cento del prodotto lordo, a cavallo tra Danimarca (56,4) e Spagna (44). La Francia è molto più in alto (54,3), la Germania è al 45,4, la Gran Bretagna, che ha inventato la spending review, sfiora il 50. In questi tre anni la spesa è cresciuta ancora, ma gli equilibri restano gli stessi. La posizione non cambia molto prendendo i singoli capitoli: la protezione sociale (20,4 l’Italia, 21,8 la Germania, 23,7 la Francia); la sanità (7,5; 6,9 e 8,4); l’istruzione dove, con il 4,8 per cento del pil, stiamo peggio dei francesi (6,2), ma meglio dei tedeschi (4,4). Le spese generali in Italia raggiungono la cospicua percentuale di 4,2 punti, peggio che in Germania (3,5) e in Spagna, ma meglio della Francia. Gli acquisti di beni e servizi possono scendere di tre punti senza colpo ferire. Non parliamo dei contributi a fondo perduto per le imprese, che non hanno creato né crescita né occupazione. Ma è un sollievo necessario, non sufficiente. Ecco perché si fa spazio anche in Parlamento il partito della botta secca allo stock del debito. Sta prendendo piede l’idea di istituire un fondo nel quale far confluire quella parte del patrimonio vendibile subito o in un prossimo futuro, dai pacchetti azionari delle aziende pubbliche ai beni immobili. Una operazione da 300 miliardi (questa la stima più diffusa) che consente di liberare risorse in vari modi. Innanzitutto, pagando interessi inferiori, perché si emettono meno titoli e i tassi scendono. Però ci sono anche altri mezzi. Il fondo può stampare bond al 2 per cento per ricomprare i buoni del Tesoro con rendimenti troppo elevati. E’ possibile ricorrere a una tassa di scopo sostitutiva dell’Imu, secondo una proposta presentata dal senatore del Pdl Mauro Cutrufo. Andrea Monorchio e Guido Salerno Aletta sono per una ipoteca volontaria sul 10 per cento della propria abitazione, pagandola in titoli di stato al 2 per cento, i quali saranno girati alla banca che li usa come collaterali presso la Bce. In questo modo, i risparmiatori ottengono denaro contante, l’esborso per interessi scende, Bot e Btp tornano in patria. Questa operazione viene concepita in alternativa alla patrimoniale. Ma può anche accompagnarla, se l’imposta straordinaria assume un connotato soprattutto distributivo, come nell’ipotesi di Guido Tabellini, rettore della Bocconi: cinque per mille su tutti i patrimoni superiori al milione di euro. C’è, tuttavia, una difficoltà politica (il Pdl allo stato attuale resta contrario e un colpo ai ricchi ammorbidisce solo il Pd) che s’accompagna a un limite economico: l’aumento delle tasse, anche se sulle “grandi fortune”, ha un impatto recessivo. Per compensarlo occorre sostenere i redditi bassi, quelli con maggiore propensione al consumo. In tal caso, il gettito per l’erario sarebbe inferiore e non si avrebbero benefici immediati sul debito. Resta nello sfondo un rincaro dell’Iva. Può finanziare un riequilibrio fiscale (dal lavoro alle merci) oppure aprire spazi per sostenere la crescita se si accompagna alla riduzione degli interessi e delle spese correnti. A meno che non finisca nel grande calderone dell’emergenza. La “fase due”, insomma, è complessa e ancora indeterminata: che ci sarà ciascun lo dice, quando e come nessun lo sa.