Più cinesi dei cinesi
La notizia del gruppo svedese di arredamento Ikea che ha spostato in Italia, in particolare in Piemonte, alcune produzioni industriali precedentemente allocate in Asia è in realtà una notizia sull’opportunità d’investimento delle grandi multinazionali. Ikea non ha mai avuto un ottimo rapporto con Roma. Lo stesso Lars Petersson, amministratore delegato del gruppo in Italia, ha detto: “L’incertezza dei tempi della burocrazia e della politica rendono il mercato italiano meno appetibile”.
La notizia del gruppo svedese di arredamento Ikea che ha spostato in Italia, in particolare in Piemonte, alcune produzioni industriali precedentemente allocate in Asia è in realtà una notizia sull’opportunità d’investimento delle grandi multinazionali. Ikea non ha mai avuto un ottimo rapporto con Roma. Lo stesso Lars Petersson, amministratore delegato del gruppo in Italia, commentando il trasferimento della fabbricazione di cassettiere, rubinetterie e giocattoli dall’Asia al Piemonte, ha detto di averlo fatto “perché abbiamo un’ottima esperienza con i fornitori e la loro qualità. Hanno dimostrato di essere molto flessibili sui cambiamenti dei prodotti”, ma “l’incertezza dei tempi della burocrazia e della politica rendono il mercato italiano meno appetibile”. Petersson si riferisce principalmente al caso del negozio Ikea di Pisa, sul cui iter di apertura si espresse a gennaio anche il presidente della Commissione europea, José Barroso: “Il gruppo svedese è stato costretto ad attendere sei anni per avere il permesso per aprire un nuovo punto vendita, quando in Cina servono solo otto mesi. Alla fine Ikea ha perso la pazienza e si è trasferita in un’altra città della regione”.
L’Italia sarà pure un mercato poco appetibile dal punto di vista burocratico, ma mentre il costo del lavoro in Cina cresce (“L’era del lavoro low cost cinese è finita”, scriveva la Reuters in un’analisi all’inizio di aprile), il cordone antidollaro di Pechino e Tokyo si rafforza, il caos sulle valute s’avanza in America latina, per l’azienda svedese ci sono poche altre scelte a disposizione. “Per spiegare la decisione di Ikea possiamo ipotizzare due risposte, una finanziaria e una industriale”, dice al Foglio Federico Magno, amministratore delegato di Porsche Consulting. Mentre la risposta finanziaria verrà tra un anno almeno, con i numeri in grado di quantificare lo spostamento di produzione, sul piano industriale Magno dà una risposta che ha a che fare con gli anni Ottanta, quando gli italiani erano conosciuti come i cinesi d’Europa.
“Fino a vent’anni fa, ogni volta che l’Italia entrava in recessione si avviava una svalutazione competitiva della lira e automaticamente i beni divenivano più competitivi per i mercati più ricchi”, dice l’amministratore delegato di Porsche Consulting, “ma oggi che la svalutazione della lira non è più possibile, l’euro inchioda l’Italia a una politica virtuosa. Inoltre quello che noi scambiamo per flessibilità gli acquirenti esterni lo chiamano ‘casinismo’”. In pratica, spiega Magno, le aziende italiane adeguate ai tempi sono quelle che “adottano modelli competitivi che non si basano sul prezzo ma sul livello di qualità, di servizio, e di costo complessivo”. Il modello tedesco applicato al rubinetto: se è italiano costa di più produrlo ma la qualità del prodotto finito, alle multinazionali come Ikea, conviene sul lungo termine.
Un problema che non è estraneo al Brasile, per esempio. Paulo Skaf, il presidente della Fiesp, la potente Confindustria di San Paolo, durante una manifestazione per chiedere al governo di tutelare l’industria brasiliana ha detto: “Oggi è più conveniente produrre in Italia, negli Stati Uniti, in Paraguay o in Argentina che in Brasile. Il caos dei cambi di valuta non ha fatto altro che aggravare lo scenario e rubarci il margine di competitività che avevamo”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano