La palla al piede di Sarko

Marina Valensise

A meno di sette giorni dal primo turno delle presidenziali francesi i giochi sembrano fatti. I risultati dell’ultimo sondaggio Ipsos, diffusi ieri, annunciano un testa a testa al primo turno tra il presidente in carica Nicolas Sarkozy e il socialista François Hollande, ma confermano la vittoria al secondo turno dello sfidante a grande maggioranza. “Almeno tre-quattro milioni di elettori si decideranno solo negli ultimi giorni”, avverte però Patrick Buisson, consigliere del presidente candidato, l’uomo che meglio conosce i movimenti d’opinione in Francia.

    A meno di sette giorni dal primo turno delle presidenziali francesi i giochi sembrano fatti. I risultati dell’ultimo sondaggio Ipsos, diffusi ieri, annunciano un testa a testa al primo turno tra il presidente in carica Nicolas Sarkozy e il socialista François Hollande, ma confermano la vittoria al secondo turno dello sfidante a grande maggioranza. “Almeno tre-quattro milioni di elettori si decideranno solo negli ultimi giorni”, avverte però Patrick Buisson, consigliere del presidente candidato, l’uomo che meglio conosce i movimenti d’opinione in Francia. Intanto, fra l’incertezza e il tentativo di rincuorare le truppe, il dubbio cresce sulle possibilità di tenuta del presidente candidato e su di lui s’allunga l’ombra gelida della sconfitta, ora che anche i ministri dell’ouverture à gauche come Martin Hirsch gli voltano le spalle, e persino l’ex ministro della Funzione pubblica, l’ulivista Franco Bassanini, cooptato con Mario Monti nella commissione Attali per la crescita e l’innovazione, denuncia la perdita di carisma e di prestigio del presidente Sarkozy e la scomparsa dell’intuizione riformatrice dal suo progetto.

    Molti allora si domandano qual è il bilancio di Sarkozy, pensando alla famosa palla al piede, metafora assassina utilizzata in tv dall’ex premier socialista Laurent Fabius. E cercano di capire: quale atteggiamento, quali errori imperdonabili  gravano sulla disillusione dei francesi? Se di fallimento si tratta, davvero rischia di trascinare Sarkozy verso la sconfitta? Per rispondere, bisogna ricordare quali sono i fattori chiave che segnano la parabola di un presidente eletto cinque anni fa con una maggioranza considerevole, il 53,06 per cento dei voti, come se fosse l’incarnazione di una figura provvidenziale, l’uomo nuovo che avrebbe assicurato la “rupture” – lui che pure era stato ministro di lungo corso della destra al potere, sin dai tempi del liberale Edouard Balladur, e dopo avere espiato il tradimento del presidente Jacques Chirac, di cui fu ministro degli Interni, delle Finanze, e poi di nuovo degli Interni.

    Sarkozy si era imposto come l’outsider, l’avvocato brillante (difensore fra l’altro di Silvio Berlusconi), cresciuto fuori dal serraglio dell’Ena, la Scuola nazionale d’amministrazione che dal Dopoguerra sforna in Francia le élite politiche e dirigenti anche se al prezzo di sclerosi e esclusivismo. Era il mezzo ungherese, figlio di un aristocratico un po’ avventuriero, sfuggito rocambolescamente all’Armata rossa, sbarcato a Parigi senza un franco; il mezzo ebreo per via del nonno materno, un sefardita di Salonicco diventato medico francese e gollista che infuse nel nipote la passione per il generale. Da perfetto outsider, Sarkozy sognava di trasformare un vecchio e nobile paese, un po’ arterosclerotico per via della massiccia ingerenza dello stato sull’economia, in un paese dinamico, moderno, liberale, aperto al mercato, pronto a competere sul mercato globale. Da atlantico, occidentalista e filoamericano, si era messo in testa di restituire alla Francia un rango internazionale di primo piano, superando l’autismo in cui Chirac e il suo ministro degli Esteri flamboyant, Dominique de Villepin, l’avevano gettata ai tempi dell’intervento contro l’Iraq di Saddam Hussein.

    Ma dopo i primi successi europei, nella gestione della crisi della Georgia, Sarkozy ha dilapidato il suo capitale di prestigio internazionale, provocando quasi la rottura con la Nato per l’intervento unilaterale in Libia, a fianco della Gran Bretagna, in difesa dei ribelli anti Gheddafi. Poi, certo, c’è stata anche la caduta d’immagine. Il gollista che strizzava l’occhio a Léon Blum e Guy Mollet, e diceva di voler abituarsi a “habiter la fonction” con un ritiro in monastero, ha preferito festeggiare la vittoria con una cena esclusiva al Fouquet’s, ristorante di lusso per ricchi libanesi indiamantati sugli Champs Elysées, per poi prendere il largo a bordo dello yacht di Vincent Bolloré, industriale amico e miliardario pronto a fronteggiare i capricci dell’allora Mme Sarkozy, Cécilia Ciganer. Poi c’è stata la gaffe del “casse toi pauvre con”, epiteto non elegantissimo rivolto a un visitatore del Salone dell’agricoltura che rifiutava di stringergli la mano. Ora si apprende che si trattò di un montatura a fini di immagine, finita però male. Di queste faute de gôut Sarkozy si è pentito, mostrando contrizione in tv. Eppure pesano sulla sua candidatura come un macigno, come il peccato originale, la colpa grave e irredimibile di un impostore, di un traditore, peggio ancora di un presidente egomaniaco e impetuoso incapace di essere all’altezza della solennità della funzione, al punto da far dimenticare la campagna travolgente che cinque anni fa lo portò alla vittoria.

    Allora Sarkozy trovò le parole d’ordine per dare una scossa ai francesi e scongiurare la sorpresa di un nuovo 2002, quando il capo della destra xenofoba, Jean-Marie Le Pen, finì in ballottaggio, eliminando il mesto premier socialista Lionel Jospin, che per troppo understatement aveva annunciato la sua candidatura con un semplice fax alle redazioni dei giornali. Sarkozy mise in moto il “syphonnage” dei voti dell’estrema destra. Cavalcò una campagna ecumenica in nome dell’identità nazionale, della sicurezza, del ritorno ai valori, del rispetto per l’autorità nella scuola, nella famiglia, in fabbrica. Promise il ritorno al senso del dovere, alla responsabilità personale, al lavoro, al merito (discorsi scritti da Henri Guaino, un genio). E stravinse. “Lavorare di più per guadagnare di più”, era il motto dell’uomo che prometteva ai francesi di farli uscire dalla morsa delle 35 ore settimanali in cui erano stati spinti, dieci anni prima, dal malthusianesimo socialista, col rischio di mortificare la produttività e la stessa industria del tempo libero (“come vado in vacanza se non ho i soldi per farlo?” si chiedevano gli operai liberati da turni di 6h30).

    Oggi è diverso. Sarkozy non incanta, non trascina più. Resiste col suo zoccolo duro, il 27 per cento pronti a votarlo al primo turno, ma l’entusiasmo non c’è più. Il socialista Hollande continua a essere il favorito, anche se incombe sulla sua stella il fuoco amico di Jean-Luc Mélenchon, il tribuno della plebe candidato del Fronte di Sinistra, che vuole tassare i ricchi, ridurre a 300 mila euro gli stipendi dei manager, e col suo populismo mediatico ammalia il centrodestra, sino a schizzare dal 5 al 14 per cento nelle intenzioni di voto. E’ vero che niente è più scivoloso dei sondaggi. I francesi non amano raccontare i fatti propri, preferiscono dissimulare, negare, schivare il confronto diretto, coltivando il segreto dell’urna, che in un paese a forte tradizione rivoluzionaria è sempre garanzia di libertà. E poi, inattendibili dopo lo choc Le Pen 2002, i sondaggi offrono solo un’istantanea dell’opinione pubblica, senza rivelarne la dinamica interna. Per questo, il mefistofelico Buisson, che intrattiene un legame privilegiato col frontista Mélenchon il quale l’estate scorsa era presente all’Eliseo quando Sarkozy ricompensò il suo consigliere con la Légion d’honneur, ha spiegato che Hollande prenderà meno voti dell’ex compagna Ségolène Royal nel 2007.
    Ma i segni della disaffezione verso Sarkozy si palesano ogni giorno di più. E oggi, secondo i demoscopisti, ben due terzi dei voti a favore del socialista Hollande sarebbero anti Sarkozy. Come se l’impopolarità del presidente fosse il contrappasso direttamente proporzionale al consenso ricevuto nel 2007. Cos’è successo dunque in questi cinque anni?

    I più severi rimproverano a Sarkozy l’attivismo di un epigono del gollismo, che pur avendo cercato di inseguire e riprodurre il modello del generale De Gaulle, salvatore in extremis della patria, dopo l’onta del collaborazionismo, rifondatore delle sue istituzioni grazie alla Costituzione scritta da Michel Debré, che riconcilia la tradizione monarchica e la democrazia rappresentativa, sarebbe scivoltato in un’azione politica sbiadita, senza realmente centrare la visione della Quinta Repubblica e il suo rinnovamento, al quale pure intendeva contribuire. Sarkozy ha iniziato il suo mandato promettendo una politica di civiltà, attenta ai bisogni degli esclusi, al riscatto delle banlieue, già esplose in disordini spettacolari. Voleva incarnare la severità dei principi inderogabili del patto sociale, a cominciare dalla responsabilità delle famiglie, dal rispetto verso i professori, categoria quanto mai vilipesa e addirittura irrisa dagli allievi inclini al teppismo che anziché “alzarsi in piedi quando entra in classe il professore”, come sognava Sarkozy nel 2007, continuano a vomitargli addosso il loro disprezzo (“perché mai dovrei fare un lavoro di merda come il suo per 1.500 euro al mese, quando ne posso guadagnare dieci volte tanto?” ). Sarkozy aveva promesso una scuola migliore, un’università prestigiosa, il pieno impiego, un’industria efficiente, libera da costi del lavoro esorbitanti. Voleva una Repubblica “irreprochable”, dalla quale bandire lo spirito di parte, decidere le nomine pubbliche con l’accordo dell’opposizione. Da presidente eletto a suffragio universale voleva riferire in Parlamento, senza che il governo ne fissasse l’ordine del giorno. Anche se ha nominato il socialista Didier Migaud a capo della Corte dei Conti, e ha reso per la prima volta pubblico il bilancio dell’Eliseo, in Parlamento ci è andato solo una volta, in compenso è stato inseguito dall’accusa di familismo amorale, col figlio Jean che aspirava alla guida dell’Epad, e dal sospetto di corruzione, con la miliardaria Bettencourt e il libanese Takieddine che distribuivano mazzette, mentre lui stesso veniva additato come il presidente dei ricchi e del regalo fiscale alle classi più agiate.

    Il suo bilancio resta dunque “extraordinairement mince”, stando al giudizio-killer dell’ex ministro della Pubblica Istruzione, Luc Ferry, studioso di Kant e Leo Strauss, e intimo di Carla e del neomarito, subito stigmatizzato dall’attuale ministro Luc Chatel. E’ vero che in ognuna delle 54 mila scuole francesi, si legge nel sito della France Forte, ora si insegna l’educazione civica, i programmi sono stati semplificati, gli orari riorganizzati, gli scolari in difficoltà hanno due ore la settimana di corsi di sostegno, gli allievi con solide basi in francese e matematica sono aumentati del 7 e del 5 per cento nell’ultimo anno, e esistono già 26 internati di eccellenza, e i borsisti nelle classi preparatorie destinate alle grandes écoles sono in media il 30 per cento.  “Ma le scuole di banlieue sono peggio di prima”, insiste Ferry. E’ vero che la riforma dell’università in nome dell’autonomia, cinque miliardi di fondi in più in cinque anni, e una spesa di 10.100 euro l’anno per ogni studente, contro gli 8.600 del 2006, è avvenuta a tempi di record. Ma gli universitari restano perplessi sui risultati effettivi.
    Sul terreno del lavoro e della disoccupazione le cifre sono tremende. In cinque anni il tasso di disoccupazione si è moltiplicato per due, toccando ormai il 10 per cento della popolazione attiva, e il 30 per cento dei giovani tra 15 e 18 anni. Stando alla fondazione socialista Terra Nova, oggi in Francia c’è un milione di disoccupati in più, in tutto 4.834.400 persone, quasi mille al giorno solo nell’ultimo anno. E questo nonostante i 13 miliardi annui investiti dal governo nelle politiche del lavoro, con la riforma del regime di indennità ai disoccupati e del sistema di formazione professionale. L’industria in dieci anni di destra al potere, sottolinea sempre Terra Nova, ha perso 750 mila posti di lavoro. I poveri ormai sono 8.035.000, 330 mila in più negli ultimi cinque anni. E questo nonostante la creazione del Rsa, Reddito di solidarietà attiva, finanziato con l’aumento delle tasse sui redditi da capitale, mentre le disparità salariali sono esorbitanti: il 10 per cento dei più ricchi guadagna almeno il 665 per cento in più del 10 per cento dei più poveri, anche se il pil cresce meno dell’1 per cento. I liberali come Nicolas Baverez parlano di “eutanasia della produzione privata”, denunciano il ritardo negli investimenti e nell’innovazione, provocato dal crollo della competitività di cui testimonia il deficit commerciale record di 70 miliardi nel 2011. Altra nota dolente, il debito pubblico. Sarkozy aveva promesso di portarlo sotto il 60 per cento del pil, ma negli ultimi anni è aumentato di 600 miliardi, aspirando cioè dal 64 all’85 per cento del pil, mentre il deficit è salito dal 2,3 al 5,4 per cento del pil, che in compenso è cresciuto pochissimo, da 1.801 a 1.812 miliardi.
    Certo, c’è stata la crisi, anzi la sequela di crisi innescate dal crollo del mercato americano dei subprime, sino all’ultima speculazione sui debiti sovrani, che ha messo in ginocchio la Grecia, col rischio di far saltare l’euro. Ma anche qui le opinioni divergono tra chi sostiene che la crisi non ha provocato, ma solo accelerato, il dissesto legato a un modello di sviluppo fondato sul debito pubblico, in cui l’unico motore dell’economia sono i consumi, e chi invece insiste nel dire che il dissesto nei conti pubblici è effetto soprattutto della crisi, collegando i dati incresciosi al contesto internazionale. La più grave crisi economica dalla Grande depressione del 1929, ha spiegato Sarkozy, nei vari tentativi di impartire una pedagogia della catastrofe, ci è costata 50 miliardi di entrate in meno. Ma il governo Fillon ha evitato il peggio, insiste ora il presidente candidato, puntando sulla differenza comparativa coi socialisti e sull’effetto elettorale di una leadership sicura nella tormenta, di gran lunga preferibile all’indecisione e all’inesperienza del rivale Hollande. Adesso, la situazione migliora, aggiunge Sarkozy: miravamo a un deficit del 5,6 per cento, invece siamo scesi al 5,2. Meglio della Spagna, dunque. Lo stato ha dovuto sì salvare le banche, ma il suo piano non è costato un centesimo al contribuente, anzi ha fruttato 2,4 miliardi di interessi allo stato, che ha già investito 34 miliardi per rilanciare la crescita.

    Nel 2007, la crescita era forte, il rischio per l’economia era solo l’inflazione, si giustifica Sarkozy per scrollarsi di dosso la responsabilità del disastro. Eppure, a parte il cambiamento di rotta, e cioè il passaggio repentino dalla denuncia di un modello di economia amministrata alla sua difesa a oltranza, come strumento di protezione dei cittadini dagli effetti della crisi, molti gli rimproverano di aver solo aggirato il regime delle 35 ore, senza abolirlo del tutto. Abbiamo preferito defiscalizzare gli straordinari, ha ammesso Sarkozy, citando gli oltre nove milioni di lavoratori dipendenti che ne hanno beneficiato, guadagnando in media 450 euro in più, ed elencando le molte riforme del governo Fillon, da quella del fisco a quella dei regimi pensionistici speciali, da quella del diritto allo sciopero, per garantire il servizio minimo, sino all’ultimo fiore all’occhiello, la riforma delle pensioni, che innalzando l’età pensionabile dai 60 ai 62 anni, consentirà un risparmio di 25 miliardi di euro entro il 2018. Certo, il mondo è cambiato. E l’unico modo per uscire dalla crisi è di puntare sulla competitività, mutuando la “mitbestimmung” alla tedesca, per superare la rigidità delle norme sul lavoro con accordi diretti tra imprese e sindacati, e incentivando la formazione professionale con sanzioni alle imprese refrattarie all’apprendistato.
    Se il modello francese protegge i cittadini, quello tedesco li aiuta a crescere, insiste Sarkozy. Ma la rotta ora pare incerta. Il patto franco tedesco, difeso a oltranza a costo di compromettere la crescita, inizia a vacillare. Sarkozy, avverte Libération, ha rotto il patto del silenzio stretto con la cancelliera Merkel al vertice di Strasburgo del novembre scorso. E infatti vuole ridiscutere il ruolo della Bce, limitato per mandato al contenimento dell’inflazione. “Se la Bce non sostiene la crescita, non ci può essere crescita” ha ammesso Sarkozy nel comizio di domenica. “L’Europa deve pagare i suoi debiti, ma se sceglie la deflazione, rischia di scomparire”. Non sono in pochi a leggere in queste parole la rincorsa in extremis al socialista Hollande, che intende rinegoziare i trattati europei e il fiscal compact e punta sulla crescita, per far cambiare idea ai tedeschi. Così per Sarko la chiave della rimonta rischia di diventare un vulnus.