Tre rimedi per salvare la politica

Salvatore Merlo

 “Il marcio si deve estirpare ma guai a demonizzare i partiti o a rifiutare la politica”. E poi: “Bisogna riformare e cambiare, senza ulteriore indugio”. Per il Quirinale la risposta di sistema all’antipolitica è Monti, con la suggestione grancoalizionista e le riforme che ieri Pdl, Pd e Udc hanno presentato in Senato.

     “Il marcio si deve estirpare ma guai a demonizzare i partiti o a rifiutare la politica”. E poi: “Bisogna riformare e cambiare, senza ulteriore indugio”. Per il Quirinale la risposta di sistema all’antipolitica è Monti, con la suggestione grancoalizionista e le riforme che ieri Pdl, Pd e Udc hanno presentato in Senato. Giorgio Napolitano sta provando a rattoppare con cemento a presa rapida le crepe che lui stesso ha un po’ contribuito ad aprire nella costruzione tecnocratica, quando ha impedito al professor Monti di presentare un decreto sulla riforma del lavoro e ha preso in contropiede sia il preside impolitico (che a quel punto gli ha confessato le sue amarezze: “Non sono più così sicuro di farcela”) sia il grand commis Antonio Catricalà, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio che a novembre vaticinava con cognizione di causa che “questo governo andrà avanti a colpi di decreti e fiducia”. E così in effetti è stato, fino al giorno in cui Napolitano non ha opposto alla riforma Fornero le parole “coesione sociale”, o forse “coesione nazionale”. Non solo ragioni tecniche sull’opportunità di adottare il meccanismo decisionista della decretazione d’urgenza a una materia delicata come quella del lavoro, ma più estese preoccupazioni di carattere politico-sociale. Il capo dello stato ha consigliato a Monti di cercare nei partiti quel consenso che non aveva trovato nei sindacati. Con risultati poco apprezzabili.

    “Il governo in effetti si è indebolito”, ammette persino Franco Frattini (e lo pensa anche Enrico Letta) che pure ha un ruolo da contrafforte del governo tecnico, all’interno e all’esterno del Palazzo berlusconiano. Il Quirinale non è intervenuto a caso, e la sua esternazione pubblica, ieri, si è affiancata a un intenso lavoro di mediazione tra governo e forze politiche a ricasco del vertice che in serata ha poi riunito Alfano, Bersani, Casini e Monti a Palazzo Chigi. Sulla riforma del mercato del lavoro, pur su un letto di mugugni, si è raggiunto, pare, un compromesso; e Monti ha ottenuto, come voleva, sia la fiducia sia una promessa di Alfano e Bersani: non ci saranno altre grane, non a breve almeno. Il professore forse ha fissato gli incontri con i leader politici a cadenza settimanale, e ha faticosamente conquistato una quasi tregua che era nell’aria da lunedì grazie ai buoni auspici del capo dello stato. Ma restano troppi gli elementi di destabilizzazione – compreso l’affare delle frequenze televisive, vissuto come una ritorsione politica da una parte del Pdl – che hanno deformato quella “spirale virtuosa” e sottilmente grancoalizionista su cui Napolitano ha molto scommesso, e a ragione, nei giorni in cui ha deciso di chiamare Monti in Senato e poi a Palazzo Chigi (a novembre il capo dello stato ne parlò a lungo consigliandosi con Emanuele Macaluso ed Eugenio Scalfari). La grande operazione zoppica, l’antipolitica prende spazio e il resto lo fanno gli scandali della politica, dalla Lombardia di Formigoni alla Puglia di Vendola, dalla Margherita di Lusi ai diamanti e lingotti del leghista Belsito, fino al ritorno in Italia di Valter Lavitola con la sua coda di allusioni malandrine e tribunali mediatici.

    “Riforme e difesa della politica”, dice dunque Napolitano che, dai giorni complicati del viaggio di Monti in Asia, ha ripreso a lavorare con intensità ai fianchi della maggioranza (Pdl, Pd, Udc). Ai partiti, il Quirinale ora indica la soluzione di sistema, la via d’uscita faticosa, solidale e compromissoria da un quadro che come dice Casini “assomiglia sempre di più e pericolosamente al ’92-’93”. Con una differenza, però, e non trascurabile: “La via d’uscita politica stavolta c’è”. Si chiama Monti e rimanda alla suggestione di un rapporto di grande coalizione, costituente, tra le forze politiche; secondo un’idea cui ormai persino i bipolaristi del Pdl, anche solo per calcolo di vantaggio, sembrano essersi piegati: “Sarebbe assurdo tornare a dividersi nel 2013”. Ma si deve passare dalla riforma elettorale proporzionale di Quagliariello e Violante, da quella del finanziamento ai partiti e del sistema istituzionale. Il Pd deve anche resistere alla tentazione di voler fare da solo, convinto com’è – complice Massimo D’Alema – di poter vincere le elezioni al più presto con Vendola e Di Pietro. Così Napolitano ha seguito tutti i dossier, e a Violante, che in questi giorni ha fatto la spola tra Montecitorio e il Quirinale portando le bozze di riforma sotto il braccio, ha dato anche consigli preziosi. Ieri il progetto di riforma costituzionale (premierato, sfiducia costruttiva, bicameralismo perfetto) è stato depositato a Palazzo Madama. Il presidente del Senato, Renato Schifani, ha garantito tempi rapidi. “Autoriformatevi prima che sia tardi”, pensa il Quirinale.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.