Tre dubbi liberali sulla tentazione dirigista per le frequenze tv

Francesco Forte

L’idea del governo di mettere le manette alla gara a pagamento per le frequenze televisive, escludendo le imprese che ne hanno già una quota importante, mi ha stupito. Mentre non mi ha stupito il fatto che essa alberghi nel Pd, il cui Dna è ancora in gran parte dirigista, e nei partiti provinciali o giustizialisti. La tesi per cui bisogna impedire alle imprese di crescere, con criteri di mercato, al di sopra di una certa quota, non può essere sostenuta con l’argomento per cui ci si vuole proteggere dalle posizioni dominanti, se si accetta il principio della gara di concorrenza.

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    L’idea del governo di mettere le manette alla gara a pagamento per le frequenze televisive, escludendo le imprese che ne hanno già una quota importante, mi ha stupito. Mentre non mi ha stupito il fatto che essa alberghi nel Pd, il cui Dna è ancora in gran parte dirigista, e nei partiti provinciali o giustizialisti. La tesi per cui bisogna impedire alle imprese di crescere, con criteri di mercato, al di sopra di una certa quota, non può essere sostenuta con l’argomento per cui ci si vuole proteggere dalle posizioni dominanti, se si accetta il principio della gara di concorrenza. Infatti (come si legge  nei miei “Principi di economia industriale in una società di capitalismo avanzato” per l’editore Iiriti di Reggio Calabria e nel I volume della riedizione del mio “Manuale di politica economica” in corso per l’Istituto Bruno Leoni) bisogna distinguere le quote di mercato che le imprese si procurano con il proprio successo e gli abusi che possono fare con tali quote, ad esempio discriminando i prezzi.

    La crescita della quota di mercato dovuta alla gara economica è l’essenza della concorrenza, come assetto selettivo darwiniano o marshalliano, schumpeteriano e alchianiano (da Darwin in biologia e da Alfred Marshall e Armen Alchian nella scienza economica che hanno elaborato  questa teoria). E come si definisce il mercato, dato che siamo in Europa e che accanto alla televisione c’è il computer e il telefono oltre ai giornali on line? Che senso hanno questi divieti in un mondo di tecnologie in movimento? Non a caso il Trattato dell’Unione europea, elaborato sotto l’influsso della teoria  della concorrenza (sostenuta dagli economisti tedeschi di “Ordo”, da Ropke ed Einaudi) ha distinto la posizione dominante dall’abuso di posizione dominante, vietando e punendo solo questa seconda. E ha apposto alla posizione dominante dei divieti solo quando essa oltrepassa date quote mediante fusioni e acquisizioni. Non quando si tratta di crescita per via economica autonoma.

    Il divieto di accesso alle aste a pagamento delle frequenze non è solo contraria alla teoria dell’economia di mercato di concorrenza e in particolare a quella di Ordo cioè anche alla teoria dell’economia sociale di mercato, che sembra informi il presidente del Consiglio, ma anche al Trattato vigente dell’Unione europea. Né vale l’argomento che qui si tratta di reti. Se si adottasse il principio generale che le reti ottenute a pagamento con gara non possono  superare  una data quota del mercato, così come definita dal legislatore a suo arbitrio, Ikea o Esselunga  non potrebbero aprire nelle regioni dell’Italia esercizi di grande distribuzione oltre una data quota del mercato, pur pagando gli oneri di urbanizzazione. Luxottica non dovrebbe poter superare il 50 per cento dei  negozi con  Salmoiraghi, Feltrinelli dovrebbe limitare la sua rete di librerie, Luftansa i suoi voli.
    Né vale l’argomento che le frequenze dell’etere sono, ciascuna, un tutto continuo e non sono illimitate. Infatti sono molto numerose nello spazio satellitare. E potrebbero essere fruite da terzi su licenza. Ci si lamenta che non abbiamo abbastanza grandi imprese. Perché – allora – facciamo loro la guerra?

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