La società dello stupro
Il titolo di un libro è come un ambasciatore che venga a portar notizie di un paese ancora sconosciuto. Può accadere però che questo messo – vuoi per la sua affabilità e il suo talento mondano, vuoi perché arriva nel luogo giusto al momento giusto – sia accolto con tanto fasto e tanti onori che nessuno si cura più di visitare la sua terra d’origine. E’ accaduto con la “fine della storia” o con lo “scontro di civiltà”, formule che hanno preso a vivere di vita propria nel dibattito pubblico senza che nessuno s’incomodasse a studiare le tesi di Fukuyama o di Huntington.
Il titolo di un libro è come un ambasciatore che venga a portar notizie di un paese ancora sconosciuto. Può accadere però che questo messo – vuoi per la sua affabilità e il suo talento mondano, vuoi perché arriva nel luogo giusto al momento giusto – sia accolto con tanto fasto e tanti onori che nessuno si cura più di visitare la sua terra d’origine. E’ accaduto con la “fine della storia” o con lo “scontro di civiltà”, formule che hanno preso a vivere di vita propria nel dibattito pubblico senza che nessuno s’incomodasse a studiare le tesi di Fukuyama o di Huntington. E’ accaduto, in modo perfino più vistoso, con il “circo mediatico-giudiziario”. Quando l’avvocato Daniel Soulez Larivière, nel 1993, pubblicò in Francia Du cirque médiatico-judiciaire et des moyens d’en sortir, in Italia si era al culmine di Mani pulite: il luogo giusto al momento giusto, appunto. Quanti lessero il libro, tradotto l’anno dopo da un editore piccolo, coraggioso e aristocratico? Non molti, c’è da supporre. Ma da allora la formula è diventata moneta corrente nella prosa giornalistica, sia pure con qualche interpolazione rivelatrice: alcuni usano la variante di circolo (che evoca, nobilmente, il circolo vizioso della logica), altri quelle di circuito o cortocircuito (che allude al malfunzionamento di un meccanismo, indipendente dalla volontà di chi lo innesca), nessuno sembra aver voglia di ricordare che Soulez Larivière parlava proprio di un circo, che pianta il suo tendone sulla scena di un crimine. Un circo che non si mette in moto da sé, ha i suoi zelanti impresari, i suoi allestitori, i suoi attrezzisti. Ai magistrati e ai giornalisti spetta, come si può intuire, il ruolo di grandi domatori, e dal punto di vista della civiltà giuridica poco conta se a finire in pasto ai leoni sia un colpevole o un innocente: come già nella Roma imperiale, la damnatio ad bestias poteva spettare al più losco dei malfattori come al più limpido martire cristiano.
C’è un aspetto fondamentale, tuttavia, che la felice formula di Soulez Larivière rischia di relegare ai margini: se il circo è uno spettacolo fatto di stravaganze e attrazioni fini a sé stesse, il circo mediatico-giudiziario ha bisogno, per funzionare a pieno regime, di un canovaccio narrativo, di un embrione di mitologia, diciamo pure di un “epos mediatico-giudiziario”. Il guasto non è nuovo – “talora formasi un verace romanzo, o piuttosto un tragico poema, in cui l’accusato è l’infelice protagonista”, scriveva Francesco Mario Pagano nelle Considerazioni sul processo criminale del 1787 – ma trova in un tempo come il nostro, dove tutto prende forma e figura di narrazione, un’amplificazione spaventosa. Quanto più un caso si lascia inscrivere nei confini di una storia già nota e popolare, di una fiaba antica, di un romanzo o di un film di successo, tanto più il circo trova di che alimentarsi e radunare folle plaudenti e feroci. Ne dà riprova la cronaca italiana degli ultimi anni: una nazione intera è stata intrattenuta per interminabili dirette televisive con il dramma euripideo della Medea di Cogne o con la fiaba demonologica della piccola strega venuta da un paese lontano a portare scompiglio nella sonnecchiante Perugia (un intreccio a metà tra Gli uccelli di Hitchcock e Twin Peaks). Soprattutto, la nostra scena pubblica è stata occupata per mesi da un tetro revenant della mitologia norrena, il Drago divoratore di vergini, posto sulla soglia dei mondi altrimenti inaccessibili dello show business, del lusso e del potere politico. Non spetta a noi, in queste brevi note, ragionare di colpa e d’innocenza, delle responsabilità politiche o penali, dei mille aspetti poco commendevoli (per dire il meno) emersi dagli scandali, insomma dei dati di fatto che hanno alimentato la grande narrazione. Ci preme semmai notare che lo schema mitico, suggerito in origine in una lettera pubblica della first lady ravveduta, alimentato a furia di articoli, reportage e inchieste a puntate dal piglio romanzesco, attecchì così a fondo che quando si diffuse la notizia che a giudicare il Drago in tribunale sarebbe stato un collegio di tre donne molti se ne compiacquero, quasi che l’unico finale mitologicamente corretto fosse l’imperscrutabile verdetto delle Norne all’ombra del grande frassino.
Il caso di Dominique Strauss-Kahn, arrestato il 14 maggio 2011 con l’accusa di avere stuprato una cameriera dell’hotel Sofitel di New York, prosciolto dalla giustizia americana perché non c’erano elementi a sufficienza per incardinare un processo, è un altro garbuglio (in parte ancora aperto) su cui è difficile dire una parola definitiva. Più che le saghe nordiche, la vicenda ha destato nella penna di alcuni commentatori l’evocazione di Zeus e di Europa, del dio libidinoso e incontinente che per inseguire i suoi capricci spadroneggia sulle mortali e ricorre impunemente alla violenza, piombando in terra dall’Olimpo del potere finanziario. L’allestimento di questo scenario mitologico, tuttavia, non è stato immediato. Marcela Iacub, giurista e ricercatrice di origini argentine, femminista libertaria nemica del femminismo moralista, nota nel dibattito francese per le sue posizioni in difesa della prostituzione e della pornografia, ricostruisce in queste pagine gli aspetti ideologici del circo mediatico-giudiziario scatenato dall’affaire DSK. La sua controinchiesta non ha l’ambizione di stabilire che cosa è accaduto nella suite del Sofitel (su questo aspetto, da garantista, si attiene alle procedure di accertamento della verità giudiziaria) ma vuol portare alla luce le implicazioni politiche e ideologiche dei discorsi intessuti intorno alla vicenda. Subito dopo l’arresto, nota Iacub, sembrava regnare una certa “anarchia ermeneutica”. Che cosa fosse successo non era del tutto chiaro, e soprattutto non si era ancora scelto dal campionario delle narrazioni familiari il canovaccio più adatto alla bisogna. Le reazioni dei primi giorni si dividevano tra l’incredulità, lo sconcerto, il biasimo morale, l’evocazione della leggendaria erotomania di Strauss-Kahn, i sospetti che si trattasse di un complotto ai danni del candidato in pectore del Partito socialista alle presidenziali del 2012, i dubbi sulla ricostruzione dell’episodio e sulla credibilità della testimone d’accusa. Questa fase interlocutoria durò appena tre giorni, e già il 17 maggio aveva preso forma sulla stampa francese una lettura dei fatti destinata a diventare egemonica e a scalzare le piste alternative, se non addirittura a marchiarle d’indegnità.
La prima ricostruzione della vicenda della suite 2806 del Sofitel di Manhattan, d’altro canto, sembrava fatta apposta per adattarsi allo stampo di una grande narrazione allegorica, come se le nebbie dell’ipocrisia si fossero d’improvviso diradate per rivelare l’essenza più profonda del nostro ordine mondiale. Più che le licenze di Zeus, a fornire il canovaccio furono due narrazioni ideologico-mitologiche variamente intrecciate. La prima, la cui presenza ostinata è rimasta spesso sottotraccia (Iacub quasi non ne parla), era d’intonazione decisamente anticapitalistica e terzomondista: uno dei padroni del mondo, il direttore del Fondo monetario internazionale, bianco e ricco, appartenente alla casta dei dominatori, fa i suoi comodi con una donna umile, nera e immigrata, Nafissatou Diallo, nata in Guinea in una capanna di fango, fuggita dal suo paese e approdata nel Bronx, lavoratrice, vedova, con una figlia a carico. Che cos’è, se non il Capitale rapace che si avventa sul Terzo Mondo, libera volpe in libero pollaio? E’ quel che sostenne, per esempio, la scrittrice americana Rebecca Solnit. E poi la seconda grande narrazione, egemonica sui media francesi a sentire Iacub, la narrazione del femminismo radicale: il maschio affermato e potente, vertice della piramide del patriarcato – quasi un Urvater freudiano – che abusa nella certezza dell’impunità di una donna indifesa e socialmente subordinata, manifestando la sua supremazia nella forma esemplare dello stupro. A dargli man forte, una legislazione sessista, una giustizia sessista e una stampa sessista. In questa luce, le azioni attribuite a Strauss-Kahn non sarebbero il frutto delle private ossessioni di un erotomane, ma il punto estremo in cui si coagulano le mille violenze quotidiane – fisiche, psicologiche, culturali – a cui sono sottoposte le donne in una società governata dagli uomini. Di queste violenze banali, così ordinarie da passare impercepite, lo stupro è il paradigma ultimo, l’abbagliante rivelazione, almeno nelle teorie delle femministe radicali americane come Andrea Dworkin e Catharine MacKinnon.
Le femministe francesi, e al loro traino una buona parte dei mezzi d’informazione, sposarono questo schema narrativo, sbarazzandosi senza troppi scrupoli dell’antico principio della presunzione d’innocenza, anzi insinuando il sospetto che chi vi si appellava facesse il gioco di una giustizia sessista e classista. Alla presunzione d’innocenza, dicevano tutt’al più – con un pericoloso paralogismo che inverte l’onere della prova – deve fare da contrappeso “la presunzione della sincerità della denunciante”. Il plot era così potente che quando emersero le gravi contraddizioni nel racconto della donna e il procuratore decise per il non luogo a procedere, una strana delusione s’impadronì degli animi che più si erano riscaldati. Si parlò di un finale mancato, osserva Iacub, “come se, invece di ammettere che non gradivano il finale, preferissero dire che ne mancava uno”. Prodigi dell’epos mediatico-giudiziario: quando una storia è così perfetta che sembra creata apposta per offrire l’illustrazione e la dimostrazione di una teoria, distaccarsene è sempre un po’ doloroso.
Con una limpidezza argomentativa tutta cartesiana e una prosa che preferisce, per così dire, il secco all’umido, Marcela Iacub esamina gli usi ideologici che del caso Strauss-Kahn ha fatto il femminismo radicale francese. Lo scopo: proporre una nuova logica ispiratrice della legislazione sullo stupro, volta a farne un “reato sessista”, un’espressione dei rapporti di forza vigenti nella società e non già un attentato, tra le altre cose, all’autodeterminazione e alla libertà sessuale. Se la liberazione sessuale degli anni Settanta aveva celebrato tutte le forme della vita erotica purché fossero consensuali, questo nuovo femminismo cavilla quanto più possibile proprio sulla questione del consenso. Al punto di dire – come nel caso di Strauss-Kahn – che la soggezione suscitata da un uomo potente svuota l’eventuale consenso del suo contenuto di libertà, equiparando di fatto un rapporto sessuale a uno stupro; al punto di credere che una donna che accusa un uomo di stupro non possa, in fin dei conti, mentire quasi mai, e che le sue eventuali menzogne siano anch’esse un prodotto del trauma patito; al punto di ammettere che una donna, riscossa d’improvviso dalla sua soggezione psichica, possa ridefinire retrospettivamente un atto consensuale come stupro, e pretendere che ne seguano le vie legali; al punto, infine, di insinuare che esistano pratiche erotiche e perfino posizioni amatorie “oggettivamente” violente e sessiste, consensuali o meno che siano – quasi una variante dei vecchi manuali dei confessori.
Il verdetto di Marcela Iacub sulle trappole ideologiche di queste “scuole del risentimento” è impeccabile: “Ciò che il femminismo radicale cerca è che il disgusto, la colpa, il disprezzo del sesso, lungi dallo sparire, ricadano sulle spalle degli uomini, come un tempo su quelle delle donne. (…) L’importante è che ci siano figure che incarnino l’orrore del sesso e ne paghino le conseguenze, affinché questa attività sia sempre qualcosa di eccezionale, di pericoloso, di sporco e di difficile. La teoria del dominio sessista è, come lo sono state in passato le buone maniere e la morale bigotta, la giustificazione ‘razionale’ della sopravvivenza di questo orrore”. Le teorie di questo femminismo – di cui si ha l’impressione qua e là che l’autrice sovrastimi l’influenza pubblica – sono qualificate con tre aggettivi: “irrazionali, paranoiche, liberticide”. Sono accuse che Marcela Iacub aveva già lanciato in un “racconto sociologico” di qualche anno prima, Qu’avez vous fait de la libération sexuelle?, quasi un manifesto di un femminismo libertario sulla stessa linea di quello professato dalla canadese Wendy McElroy e da altre voci americane ed europee. A quei tre aggettivi ne aggiungeremmo volentieri altri tre. E’ un femminismo vittimista, perché partecipa di quel grande movimento epocale (ne hanno scritto a vario titolo Tzvetan Todorov, René Girard, Pascal Bruckner e lo stesso Soulez Larivière in un altro suo libro, Le temps des victimes) che ha reso ambìta la posizione pubblica di vittima e lo status di minoranza perseguitata, come fonte di un credito morale illimitato in odore di ricatto ideologico (senza che con ciò si debba mettere in dubbio la realtà delle discriminazioni e delle persecuzioni). E' un femminismo sottilmente clericale, perché si serve del vecchio trucco apologetico secondo cui l’unica libertà è l’adeguazione della coscienza al vero Bene, teologicamente o ideologicamente prescritto, e ogni altra espressione libera è illusoria, è la maschera di una schiavitù così interiorizzata da non essere percepita come tale (in altri termini: il femminismo radicale e moralista pretende di sapere che cosa realmente desiderano le donne meglio delle donne stesse). Ed è infine un femminismo dal volto inquisitorio, perché si allinea a quella sciagurata inversione degli ultimi due decenni in forza della quale i libertari invocano, a sostegno delle loro rivoluzioni, il braccio secolare dei giudici e dei gendarmi, i loro arcinemici di sempre.
Se al lettore fischiano le orecchie, è con buona ragione: proprio come il pamphlet di Soulez Larivière sul circo mediatico-giudiziario, il libro di Marcela Iacub parla dell’Italia almeno quanto parla della Francia. Certo, l’affaire DSK ha poco in comune con i nostri scandali sessuali, la giustizia americana un bel niente con quella italiana, e oltretutto il femminismo francese è assai diverso da quello che occupa la scena nel nostro paese. Ma la triade di moralismo, ideologia e manette, e i numeri mirabolanti che mette in scena sotto il tendone del circo mediatico-giudiziario, sono tuttora un grande pericolo da cui stare in guardia.
Il testo che pubblichiamo è la prefazione di Guido Vitiello al saggio di Marcela Iacub “Una società di stupratori?”, edito da Medusa, in questi giorni in libreria.
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