Parla Tidu Maini
La visione del Qatar: “Un Rinascimento arabo slegato da gas e petrolio”
“E’ così triste”. Tidu Maini ha modi eleganti e un inglese oxfordiano mentre, seduto in una saletta riservata a Roma, spiega perché l’Italia in campo tecnologico sia un reverse benchmark, ovvero un modello da non seguire, da osservare per capire innanzitutto come non si fa. “Avevate Finmeccanica, avevate Alfa Romeo, avevate l’Olivetti. Però tutto questo era trent’anni fa. Resta ancora una reputazione ottima per creatività e design, ma non è più così per quel che riguarda scienza e ricerca.
“E’ così triste”. Tidu Maini ha modi eleganti e un inglese oxfordiano mentre, seduto in una saletta riservata a Roma, spiega perché l’Italia in campo tecnologico sia un reverse benchmark, ovvero un modello da non seguire, da osservare per capire innanzitutto come non si fa. “Avevate Finmeccanica, avevate Alfa Romeo, avevate l’Olivetti. Però tutto questo era trent’anni fa. Resta ancora una reputazione ottima per creatività e design, ma non è più così per quel che riguarda scienza e ricerca. Trent’anni fa eravate leader in campo tecnologico. Poi vi siete persi tra burocrazia e politica”. Maini è il presidente del Qatar Scientific & Technologic Park, in Italia è arrivato a fianco dello sceicco – di cui è consigliere stretto – che la settimana scorsa era a Roma impegnato in visita di stato.
Il parco tecnologico è la base di un progetto ambizioso: investire le gigantesche risorse naturali del piccolo Qatar per pensare al dopo, a quando le risorse si saranno esaurite. “Vogliamo traghettare il paese da un’economia basata su gas e greggio a un’economia basata sulla conoscenza – dice Maini al Foglio – Per raggiungere questo obiettivo, stiamo attirando a Doha il meglio della ricerca e dell’università nel mondo. In un certo senso, è una situazione assimilabile al Rinascimento italiano, quando il mecenate spendeva in cultura, arte e scienza e faceva un investimento i cui effetti si sarebbero sentiti anche a lungo termine. Ci siamo dati un traguardo, il 2030. E abbiamo dato al complesso di questi sforzi un nome: Visione nazionale. Soltanto in questo modo il paese sopravviverà dolcemente alla fine delle sue riserve”.
Le conseguenze della Visione qatariota si vedono in giro per il mondo. “Non c’è soltanto istruzione. Facciamo investimenti in aziende solide e in grado di fare buona ricerca, come è stato in Germania con Volkswagen e Porsche, oppure in proprietà materiali con buon rendimento” (da ieri il Qatar è primo azionista di Tiffany, commercio di gioielli).
Il cuore del progetto è l’investimento nell’istruzione. La Qatar Foundation – l’unica a cui il Barcellona ha ceduto lo spazio sulla maglia – ha attirato a Doha otto università d’élite strategicamente selezionate in occidente, che hanno aperto uffici e programmi d’insegnamento nel paese arabo. “Tutto a spese nostre – dice Maini – e non c’è nessuna università italiana. Anche in questo caso quando si sono svegliate era troppo tardi”. Almeno il 50 per cento degli studenti è del Qatar, il resto arriva da tutto il mondo, con novanta nazionalità diverse. Il cinquantuno per cento sono maschi, il quarantanove per cento femmine. Eppure lo stereotipo che riguarda l’area suggerirebbe tutto il contrario: i vicini siedono su enormi risorse energetiche, ma le consumano in lussi – a beneficio di pochi privilegiati – e non hanno un’idea chiara su cosa fare con quel tipo di benedizione. Qual è la differenza? “L’unica differenza è nella leadership. Nelle scelte compiute dallo sceicco Hamad Bin Khalifa al Thani. Il Qatar poteva decidere di avere un grosso esercito e una grande aviazione militare, spende invece per avere i migliori ricercatori e gli asset economici più interessanti in giro”.
“Penso che il vostro guaio sia nel sistema universitario, che non permette alla vostra élite scientifica di arrivare fino alla cima. Se si legge la lista delle migliori dieci o venti università nel mondo, voi non ci siete. Penso che sia il diretto risultato del non volere separare le università peggiori da quelle migliori. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti i talenti migliori vanno nelle università migliori. L’Italia dovrebbe avere almeno tre o quattro università tecnologiche d’eccellenza e invece non le ha”.
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