Un uomo comune a Parigi

Marina Valensise

 François Hollande, il candidato del Partito socialista all’Eliseo, favorito dai sondaggi, è uomo prudente. Mentre i vertici di rue Solférino pensano già a come dividersi le cariche, e pullulano nel totopremier i molti nomi dei primi ministri possibili, e gli ex ministri arruolati da Sarkozy nell’ouverture à gauche ritornano all’ovile, provocando l’irritazione di Rama Yada (“c’est dégueulasse”, li ha apostrofati la perla nera del governo Fillon), Hollande serafico mette in guardia le sue truppe a Lille contro “i sondaggi che ci proclamano già eletti”.

    François Hollande, il candidato del Partito socialista all’Eliseo, favorito dai sondaggi, è uomo prudente. Mentre i vertici di rue Solférino pensano già a come dividersi le cariche, e pullulano nel totopremier i molti nomi dei primi ministri possibili, e gli ex ministri arruolati da Sarkozy nell’ouverture à gauche ritornano all’ovile, provocando l’irritazione di Rama Yada (“c’est dégueulasse”, li ha apostrofati la perla nera del governo Fillon), Hollande serafico mette in guardia le sue truppe a Lille contro “i sondaggi che ci proclamano già eletti”. Mancano due giorni al primo turno delle presidenziali, i sondaggi insistono nel testa a testa, Sarkozy-Hollande, nel vantaggio di quest’ultimo, nella vittoria a grande maggioranza al ballottaggio, ma il candidato socialista non si sbilancia. L’uomo è non solo simpatico, battutista affermato, con solido senso della “repartie” (la risposta pronta, ficcante, definitiva, che i francesi adorano, considerandola la quintessenza della socievolezza), non solo è pacioso e sorridente, ma anche fortunato e dunque prudente, visto che una virtù serve l’altra. Da quando la fortuna gli arride, Hollande infatti ha imparato a sorridere senza timidezza, ostentando un perfetto arco dentale leggermente scalare. E la fortuna, bisogna ammetterlo, con lui si è data molto da fare. Prima gli ha procurato la sconfitta nella corsa per la nomina di segretario generale del partito dell’ex compagna di scuola e di vita e madre dei suoi quattro figli, Ségolène Royal, candidata perdente alle presidenziali del 2007, messa fuorigioco nelle sue ambizioni di capo dello stato, ma non in quelle di presidente dell’Assemblea nazionale, carica alla quale ora sembra aspirare. Poi, gli ha presentato su un piatto d’argento la squalifica, per erotismo compulsivo, del principale rivale interno, il candidato in pectore all’Eliseo Dominique Strauss-Kahn, ex ministro delle Finanze, uomo intelligente ma dalla lussuria esorbitante e dall’ambizione fallace. Quindi, ostinandosi nel suo cieco lavorìo, la fortuna ha premiato Hollande come favorito nei sondaggi, rango mantenuto per mesi, nonostante la rimonta del centrista François Bayrou, che a fine gennaio fece addirittura ipotizzare una quadriglia, e nonostante la resistenza a oltranza dell’avversario più coriaceo, il presidente in carica Sarkozy, e a dispetto della spettacolare ascesa del tribuno della plebe, candidato del Front de la Gauche, paladino mediaticamente ammaliante della “insurrection citoyenne” e della “radicalité concrète” Jean-Luc Mélenchon.

    Calmo, pacato, riservato e prudente, oltreché fortunato, Hollande incarna un tipo umano antitetico a Sarkozy. Il presidente in carica, che lo sfidante socialista nei suoi comizi si è sempre ostinato, con voluttuosa perfidia, a designare come “le candidat sortant”, evocando un destino incongruo ma fatale, è un tipo nervoso, reattivo, sulfureo, adrenalinico, pronto a impossessarsi della situazione per cercare di dominarla, e avvezzo a saltare addosso all’interlocutore per sfidarlo subito in un rapporto di forza, salvo poi, vittorioso o soverchiante, mollare d’improvviso la preda per schiacciarla con la punta del piede come si fa di solito sul marciapiede con un mozzicone di sigaretta, onde spegnerne appunto ogni residua velleità e resistenza.
    Hollande invece no. E’ tutto l’opposto. E’ un tipo serafico, consensuale, spiritoso, disposto al dialogo fino allo sfinimento, un po’ boy scout, anche se è laico e fiero di esserlo, uno che si circonda sempre di molta gente, amici, militanti, simpatizzanti, persone semplici, intellettuali. “Che volete farci, a me piace la gente”, ha detto al Bourget aprendo la campagna per l’Eliseo e riscuotendo subito il plauso dei delusi dal presidente “bling bling”, amico dei miliardari e marito di un’ex mannequin ricchissima, bellissima, famosissima, e cantautrice di successo, benché rauca.
    La gente e gli amici, per Hollande, hanno funzione strategica, non solo sentimentale, però. Apparatchik di lungo corso, una vita intera dedicata alla politica, dopo il doppio diploma all’Ena e all’HEC, fucina di manager e direttori commerciali, per undici anni segretario generale del Ps, nessun incarico di governo, ma una lunga militanza sul territorio come rappresentante eletto in Corrèze, la regione dell’ex presidente Jacques Chirac, il quale ha già fatto sapere che con figlia, genero ed ex compagno della figlia, voterà per lui in odio a Sarkozy, Hollande sa benissimo che per essere un leader bisogna interpellare, coinvolgere, ascoltare molte voci prima di decidere alcunché. E alla fine, se si prende una decisione – ma con lui non sempre accade dicono gli esperti, ricordando i suoi molti soprannomi, “Flamby” nota marca di budino, “fraises de bois”, “petite blague” – la si può prendere con cognizione di causa e sulla base di un largo consenso, rifuggendo dalla stizza umorale e dal pregiudizio impulsivo. Hollande preferisce la ponderazione e per questo piace. Tant’è vero che adesso il suo modo di fare “il largo negoziato con tutte le parti sociali” diventa il modello di una democrazia esemplare, nell’appello alla nuova Repubblica fondata su un arco democratico che va dai centristi sino ai radicali di extrème gauche, appello lanciato sul Nouvel Obs, settimanale di sinsitra, da una decina di intellettuali  fra i quali spiccano lo storico Jean-Noël Jeanneney, fresco autore di uno scritto demolitorio antisarko (“L’Etat blessé”, Flammarion), l’avvocato Jean-Pierre Mignard, la produttrice Fabienne Servan-Schreiber, e la studiosa della festa, dell’utopia rivoluzionaria e dell’uomo rigenerato Mona Ozouf. Hollande dunque piace non solo come uomo ordinario, candidato a una carica straordinaria, come egli stesso ha avuto modo di puntualizzare nel corso della campagna a chi ironizzava sulla sua caratura di persona normale, modesta, quasi banale, tentata da opacità e grigiore. Ma piace soprattutto per la sua abilità di federatore nei confronti di una larga coalizione repubblicana, in grado di affrontare le sfide del nuovo ordine mondiale.

    In italiano diremmo che è un paciocco, ma i francesi dicono che è “un type bien dans sa peau”; e di sicuro lo è molto di più da quando nella sua vita è entrata Valérie Trierweiler, la cronista politica di Paris Match causa (dicono i pettegoli) della candidatura all’Eliseo dell’ex compagna tradita Ségolène e oggi compagna ufficiale di Hollande, che lo ha messo a dieta facendone un figurino, anche se la signora rifiuta questa versione dei fatti perché rischia di accreditare un’influenza femminile esorbitante con conseguente diminutio della forza di volontà dell’interessato. Come che sia, è anche per queste attitudini caratteriali che Hollande piace. Era cicciottello e in 18 mesi ha perso 10 chili, anche se ora gli esperti di metabolismo registrano un nuovo strato adiposo che per altro ben si addice all’evenienza. Niente più guance scavate come un anno fa, quando dopo l’arresto di DSK per la denuncia da parte di una cameriera nera del Sofitel, rilanciò l’atout dell’uomo normale da sostituire al “mostro”. Niente giacche cascanti o pantaloni troppo strizzati in vita. Hollande è tornato se stesso.

    Sul palco di Vincennes, dove ha tenuto un raduno da rockstar ha esposto il suo ventre di nuovo tondo e rassicurante, il volto tornito e persino più allegro rispetto a quello dell’inverno scorso, quando in tv gli mostravano le foto di prima e dopo la dieta, per sapere se si sentisse sempre lo stesso. Eppure, Hollande non ha perso niente della gravitas che è sua: “Non lasciatevi andare all’euforia. Non c’è niente di deciso finché le urne sono aperte”, ha detto martedì sera mettendo in guardia i suoi elettori,  davanti a una folla di militanti riuniti a Lilla, la roccaforte dell’ex rivale, artefice nel 1999 delle trentacinque ore e oggi aspirante premier, Martine Aubry. Intanto però i ben informati, forti dei sondaggi che insistono da giorni sugli stessi risultati, decretano: “C’est plié”. “E’ fatta”. Persino DSK, rintanato nell’appartamento di Place de Vosges, dichiara al telefono: “Sarkozy ha già perso”, non senza, è vero, una certa rassegnata costernazione, condivisa da altri esponenti del partito, per la la vittoria annunciata dell’ex rivale.
    Anche per questo Hollande, prudente e abile, mette le mani avanti per scongiurare l’euforia. Intanto gli scherzi del destino, sono sempre in agguato. E infatti Libération insiste da sinistra sul margine di errore della demoscopea francese, stimato tra il 3 e il 6 per cento, mentre da destra il settimanale Point ricorda gli errori di previsione commessi nel 1981, quando il favorito era Giscard d’Estaing e invece vinse Mitterrand, peraltro grazie ai 550 mila voti forniti da Chirac, allora in odio al liberale Giscard. “Difficile fare previsioni soprattutto per l’avvenire”, osserva il politologo Philippe Raynaud citando Chesterton. Di fatto la vera incognita delle presidenziali 2012 sta nel voto antisistema. Un trenta per cento degli elettori potrebbe dividersi tra il tribuno del Fronte della Gauche, Mélenchon, e l’erinni della riscossa del Fronte nazionale, che sogna di “siphonner” a sua volta i voti che Sarkozy e il centrodestra sottrassero a suo padre nel 2007. E la vittoria di Hollande oltreché la sua azione di governo, dipenderà in larga misura dal successo o dall’insuccesso di Mélenchon. Da destra e sinistra, entrambe le ali estreme danno voce all’angoscia dei francesi per la crisi finanziaria, per il milione di disoccupati dell’ultimo anno, per industrie che delocalizzano o  chiudono i battenti, gettando sul lastrico centinaia di migliaia di persone. Entrambi vogliono uscire dall’Unione europea, far saltare l’euro, ristabilire dazi e frontiere doganali. “Identico nazionalismo giacobino con programmi in parte diversi”, dice lo storico dell’ideologia comunista Alain Besançon. “Mélenchon vuole mimare la rivoluzione francese, guerra ai ricchi, agli accaparratori, ai nemici del popolo, ma rischia di alimentare la corrente comunista del Ps, e indebolire Hollande”. Per questo, ciò che conta nel risultato del 22 aprile non sarà tanto lo scarto che separa Hollande da Sarkozy, quanto la somma di voti ottenuti dai candidati di estrema destra ed estrema sinistra. Nell’ora delle ipotesi, molti prospettano una vittoria di Hollande, condizionata però dal radicale Mélenchon. E lui stesso, del resto, ne è consapevole. “Non pensiate che quando la destra è sconfitta, la sinistra ha di colpo tutte le possibilità” ha detto a Lilla. “Bisognerà ridurre i deficit e tenere il debito sotto controllo”, ha aggiunto il candidato della “gauche molle”, cercando di frenare la pressione mélenchonista.

    Per nulla al mondo, ha promesso il candidato del Ps, rinuncerà a risanare le finanze dello stato, a contenere il debito pubblico, schizzato di oltre 600 miliardi negli ultimi cinque anni, a ridurre il deficit, con una progessione identica per altro a quella perseguita da François Fillon (4,5 quest’anno, 3 per cento l’anno prossimo) per puntare al pareggio di bilancio entro il 2017, anche se il Fondo monetario ritiene improbabili le previsioni di crescita necessaria a raggiungerlo. Oltre a prevedere una lotta senza quartiere alla speculazione e ai paradisi fiscali, con tanto di separazione nelle banche tra attività di credito e operazioni speculative, Hollande, intende rinegoziare il meccanismo europeo di stabilità, inviando ai paesi della Ue un memorandum dettagliato entro fine maggio per rilanciare la crescita e riorientare la costruzione europea. Col suo programma mira a tassare lavoro e capitale per favorire i giovani e le piccole e medie imprese. Promette una nuova legge di sviluppo per creare una Banca pubblica di investimento al fine di finanziare le imprese. Sogna di invertire così la curva della disoccupazione, che oggi tocca il 10 per cento della popolazione attiva. Ma ha in mente anche nuove misure di politiche sociali, come 150 mila “emplois d’avenir” e i “contrats de génération” con esenzioni dagli oneri sociali per le imprese che praticano l’avvicendamento di vecchi e giovani lavoratori previo tutoraggio, e poi un piano di mobilitazione per difendere le piccole e medie imprese dalla concorrenza del mercato globale. Stimato in un costo di 20 miliardi in cinque anni (quando per arrivare al pareggio bisognerebbe tagliare la spesa pubblica di almeno 100 miliardi) il programma di Hollande prevede misure altamente simboliche e ad effetto, come ridurre del 30 per cento le remunerazioni dei ministri e del presidente, tassare al 75 per cento i redditi superiori a un milione l’anno, sopprimere le così dette nicchie fiscali, tagliando 29 miliardi di “regali ai ricchi” voluti dalla prima riforma sarkozista, bloccare per tre mesi il prezzo della benzina, e ora aumentare, a partire da luglio, il salario minimo garantito, e inquadrare gli affitti, incrementare del 25 per cento i fondi destinati alla scuola, assumendo inoltre nel corso dei prossimi cinque anni altri 60 mila nuovi funzionari destinati all’Educazione nazionale. “Nessun paese lo fa in Europa”, gli ha replicato ieri Sarkozy alla radio Europe1, sottolineando come la Spagna dopo anni di governo socialista piazza oggi i suoi titoli di stato al 6 per cento, esattamente più del doppio della Francia. Ma forse è tardi per insistere sul conto economico. “Sarkozy ha sbagliato campagna” dice un esperto come Jérôme Jaffré. “Avrebbe potuto insistere sulla competitività, attaccare Hollande sull’irresponsabilità del progetto socialista, sulla sua ‘totale inadeguatezza’ alla situazione attuale. Invece ha preferito puntare sui temi trasgressivi, come la sicurezza e l’immigrazione, per recuperare l’elettorato popolare e i voti del Fronte nazionale”.

    Certo resta che se Mélenchon superasse il 15 per cento, ci sarebbe l’effetto sorpresa. Ma intanto il favorito nella corsa all’Eliseo resta Hollande, anche se una cosa è vincere le presidenziali, altra cosa è governare. “Ci aspettano scelte difficili”, avverte Raynaud. “Se avrà la maggioranza assoluta, potrà rinegoziare il Fiscal compact coi tedeschi, con qualche compromesso retorico. Ma dopo i primi tre mesi, dovrà fare una politica di rigore, con una fiscalità aggressiva non solo verso i ricchi, ma verso le classi medie, compensando poi l’impopolarità a sinistra, coi matrimoni e le adozioni gay e col lassismo in fatto di immigrazione. Se invece per avere una maggioranza in Parlamento avesse bisogno dei voti dei comunisti e del Front de la gauche, sarebbe tutto più complicato: i radicali di sinistra si rifiuterebbero di sentir parlare di rigore, e aprirebbero la porta all’incertezza, forse anche all’avventura, con una crisi politica europea”.