Lascia Guardiola, il femminino regale che non si può non amare
"Chicos, me voy del Barça”. E’ l’annuncio che Josep Guardiola i Sala, per tutti Pep, per i catalani “el Santpedor”, dal nome del borgo di Catalogna dove è nato, ha fatto ieri mattina, alle 10 e 47, ai suoi giocatori. Un minuto dopo, la notizia viene data dal sito di Marca, il quotidiano sportivo di Madrid che è anche il giornale più letto di Spagna. E ripresa dai media del mondo intero. Qualche ora dopo, la conferenza stampa ufficiale, al fianco del presidente Sandro Rosell e di fronte a mezza squadra in gramaglie.
"Chicos, me voy del Barça”. E’ l’annuncio che Josep Guardiola i Sala, per tutti Pep, per i catalani “el Santpedor”, dal nome del borgo di Catalogna dove è nato, ha fatto ieri mattina, alle 10 e 47, ai suoi giocatori. Un minuto dopo, la notizia viene data dal sito di Marca, il quotidiano sportivo di Madrid che è anche il giornale più letto di Spagna. E ripresa dai media del mondo intero. Qualche ora dopo, la conferenza stampa ufficiale, al fianco del presidente Sandro Rosell e di fronte a mezza squadra in gramaglie. Le mani gli tremano, la voce si incrina più volte. Dice di sentirsi stanco, quattro anni al Barcellona sono un’eternità e bruciano tante energie psichiche e nervose. Dice che ci pensava già da ottobre e che ne aveva riparlato in gennaio con il presidente. Non ha detto nulla sul suo futuro ma è probabile che per un anno si riposi. A guidare la squadra sarà il suo vice Tito Vilanova, uno di casa.
“Gracias Pep” ha detto Rosell, “sei stato il più grande allenatore della nostra storia, quello che ha vinto di più, e ha imposto i nostri valori”.
Non è vero che le storie d’amore in generale finiscano male: questa è finita nella commozione e nel rimpianto di tutti.
Non capirò mai come, soprattutto in Italia e persino in questo giornale, possano esistere spiriti così esoterici e ricurvi da brindare all’eliminazione del Barça in semifinale della Champions League da parte di un club ruvido, muscolare e inconsistente, cioè inglese, come il Chelsea. Non capirò mai a quale religione appartengano coloro che di fronte a quel modo particolare che il Barça ha di giocare con una fitta, estenuante ragnatela di passaggi corti, il “tiki taka”, si permettono blasfemia e lo chiamano “chi ti caca”. Non capirò mai come si possa applaudire gli altri, avversari in trincea che magari segnano un gol in contropiede e all’ultimo minuto: è la mortificazione dell’arte, anche quando capitò al Milan che uscì indenne, due a due, due azioni due gol ma subì per tutto il tempo una severa lezione.
E mettiamo anche da parte il cinismo di chi definisce stucchevoli i gesti, la solidarietà nei confronti di Abidal il calciatore malato di cancro cui è stato trapiantato il fegato. Non sempre è un bene stare dalla parte dei teppisti. Può piacere o meno il nevrotico Ibra, e a me piace anche nella sua rabbia da combattente di strada, ma non è forse un po’ strano che sia diventato un’icona proprio da quando si è saputo che un giorno disse a Pep, suo allenatore, che non aveva palle, che se la faceva sotto di fronte a Mourinho e mancò poco che lo corcasse perché lo teneva in panchina?
Suvvia, in una rissa è da ganascia e da frustrato schierarsi con chi grida di più, insulta di più e magari rischia di picchiare più forte. E poi che idea del calcio si nasconde dietro la pretesa di opporre al carattere di Pep, alla sua mitezza – e non mollezza – l’arroganza aggressiva del portoghese? Pep non ama la rissa, non urla, non sbraita, embè? E’ animato da un femminino regale che ci piace immensamente. Che gli altri si tengano i loro maschietti sergenti di caserma e psico-motivatori della domenica.
Pep sa di calcio non solo per averlo studiato ma per averlo anche giocato, a lungo e ad altissimi livelli, per aver vinto campionati e coppe sul campo mentre Mourinho è già tanto se riesce a tirare un calcio d’angolo. E già questo dice molto. Poi c’è il bilancio dei quattro anni alla guida del Barça: diciassette trofei in palio, tredici vinti, l’en plein dei sei disponibili nella magica stagione 2010- 2011, ha vinto una media di tre incontri su quattro, 618 gol all’attivo, 178 incassati, insomma cose mostruose. Nessuno mai ha fatto di più.
Pep ha forzato l’orizzonte della rivoluzione disegnata da Rinus Michels prima e da Arrigo Sacchi poi. Una rivoluzione, perché ha semplificato il calcio restituendogli il carattere puramente gioioso dell’infanzia: si gioca in undici, si gioca per vincere e per piacere, si seduce e si vince di più quando ci si diverte, ci si diverte di più se si gioca all’attacco piuttosto che in difesa, cosa come si sa spesso angosciante. Infine si ha più possibilità di vincere se la palla la tieni di più. Non sempre va così e l’incertezza è un bene, ma la maggior parte delle volte funziona. Eccome.
Il Foglio sportivo - in corpore sano