Burino a sua insaputa
Solo un punto e mezzo in percentuale separa, nei risultati del primo turno delle presidenziali francesi, l’annunciata vittoria del socialista François Hollande e la prevista sconfitta del presidente in carica Nicolas Sarkozy, in tutto 519.164 voti. Ma adesso l’attenzione dei francesi è tutta concentrata non tanto sull’eccezionale personalità del presidente uscente, un politico che non riesce a darsi per vinto, anche se i suoi fedelissimi e i suoi collaboratori più stretti lo danno per “fichu”, e anzi è ripartito alla carica.
Solo un punto e mezzo in percentuale separa, nei risultati del primo turno delle presidenziali francesi, l’annunciata vittoria del socialista François Hollande e la prevista sconfitta del presidente in carica Nicolas Sarkozy, in tutto 519.164 voti. Ma adesso l’attenzione dei francesi è tutta concentrata non tanto sull’eccezionale personalità del presidente uscente, un politico che non riesce a darsi per vinto, anche se i suoi fedelissimi e i suoi collaboratori più stretti lo danno per “fichu”, e anzi è ripartito alla carica, dando prova di un misto di passione, energia, ambizione e combattività all’ennesima potenza, e cercando di inseguire il suo sfidante sul terreno dei conti, delle cifre vere, del bilancio reale. L’attenzione e forse l’amarezza dei francesi, o il loro rimorso, sta nel fatto di essersi ostinati a guardare alle apparenze, insofferenti al “ringard”, al “burino”, che avevano mandato all’Eliseo, per sottolinearne con maniacale ossessione la mancanza di gusto, l’arroganza, la libido di fare tutto a modo suo pur di rompere gli schemi, e fregarsene delle regole per dare una scossa alla nazione. Non si saranno concentrati troppo sull’apparenza, sui peccati veniali che ogni leadership comporta, anziché guardare alla sostanza della presidenza Sarkozy, per questa fissazione dell’impopolarità che rischia di essergli fatale?
Lo stesso Sarkozy del resto ne è ben conscio, se ha chiesto scusa per le sue intemperanze, battendosi il petto in tv. Poteva incarnare anche lui, come il suo modello italiano, Silvio Berlusconi, un capolavoro della pop art, trasformare se stesso nell’ultima performance del kitsch, anzi consacrare il genere nell’inedita veste di un’opera aperta legittimata dal suffragio universale. E invece no: gli è mancata la follia ludica di sfidare a viso aperto il buon gusto, di infrangere i tabù della politesse, di irridere gli ipocriti della terra, girando le spalle ai bacchettoni, alle anime belle, per mostrarsi agli occhi del mondo nella sua nudità di parvenu, nella sua spontaneità di outsider senza complessi, ma sicuro di sé e del fatto suo, del suo Patek Philippe da 50 mila euro, e del suo amore genuino per i simboli della riuscita sociale. No, Sarkozy non è mai arrivato a tanto. Sarà anche per questo che la sua difesa del cattivo gusto, elemento ormai consustanziale alla democrazia fondata su libertà ed eguaglianza, non è mai stata un argomento forte, da sbandierare con orgoglio, per mettere a tacere i tanti critici, gli insofferenti, i maestrini di stile, i soloni della politesse e delle buone maniere, che gli hanno dato addosso sin dal primo giorno in cui, conquistandosi il voto di milioni di francesi, stava per diventare un mito vivente. Avrebbe potuto stra sbattersene dei tanti elegantoni, Sarkozy, ignorare i tanti, troppi maestrini di bon ton che gli davano addosso. E invece no. Li ha subiti come san Sebastiano le frecce, anzi li ha persino adulati e rincorsi.
La prima a provocargli un grave danno d’immagine è stata Yasmina Reza, l’attrice e drammaturga musa di Roman Polanski (è lei che ha scritto “Carnage” per il teatro, e con lui l’ha riscritto per il cinema). Cinque anni fa, quando non era ancora una star imbottita di botox, chiese a Sarkozy di poter seguire la campagna elettorale per farne un ritratto letterario: lo sventurato accettò, illuso che il tocco magico della scrittrice circassa avrebbe magnificato tutto ciò che riguardava la sua persona. Mal gliene incolse. Yasmina Reza raccontò l’infantilismo, il narcisismo un po’ patologico, il gusto per gli orologioni da coatto, il turpiloquio, le battute postribolari e la solitudine del politico in campagna. Rivelò molte esilaranti indiscrezioni sul modo di sbavare dell’allora candidato all’Eliseo davanti a una pagina di pubblicità sul Figaro, del Rolex Oyster Perpetual Date, e sul suo indulgere da matricola a confronti sul chi ce l’ha più bello. “Elle est dans la séduction”, commentò stizzito Sarkozy quando vide quel ritratto ridicolo, e ruppe i rapporti. Errore! doveva andare avanti, dritto per la sua strada. Insistere sui camicioni a scacchi, modello Jonh Ford, sui jeans ultrafirmati, sui Ray Ban specchiati. Anche quando si fece sorprendere dai fotografi in viaggio di nozze abbarbicato al pulloverino azzurro del suo nuovo amore, Carla Bruni, con le rovine di Petra o le piramidi egizie sullo sfondo, era troppo perfetto nella sovversione dei ruoli. Troppo compiutamente “boro”, troppo “ringard” per non sfruttare “le deuxième degré”, l’artificio retorico che consiste, come ormai è assodato, nel parlare serissimamente di sciocchezze e nel trattare in modo frivolissimo di cose gravi. La cosa grave, nella fattispecie, era la sincerità della funzione di capo dello stato. Sarkozy voleva ribaltare l’immagine ieratica, compassata e soprattutto mendace che della presidenza aveva imposto il socialista François Mitterrand. Voleva squarciare il velo di ipocrisia con cui Mitterrand nel suo torbido amore per il segretario fiorentino Machiavelli, aveva avvolto le amanti segrete, le figlie naturali, la famiglia parallela, pretendendo di incarnare l’auctoritas suprema. Sarkozy, invece, era un’altra storia. Lui aveva divorziato dopo vari drammi, un tradimento alla luce del sole, una riconciliazione trasmessa in mondovisione a bordo di una piroga in Guyana, un addio sofferto, con scatti d’ira furibonda di fronte a un’allibita reporter della Cbs, che egli umiliò davanti alle telecamere abbandonando su due piedi l’intervista e gettando via il microfono, non senza aver preso a sberle il fido David Martinon, da allora precipitato nell’ombra. Libero, solo, disponibile, Sarkozy aveva incontrato a una cena da amici la bella ex mannequin e cantautrice dalla voce rauca, e il mese dopo era partito in vacanza con lei. Scandalo, oltraggio. Da un continente all’altro i diplomatici francesi si mordevano le labbra, profondendosi in scuse. “Quelle gaffe, quelle horreur”. Non era bastato il collo alto da pariolino, i Ray Ban a goccia, le effusioni sulla jeep, con dietro il figliolo e la di lui fidanzatina ereditiera. La ciliegina sulla torta fu il figlioletto di otto anni di Carla, immortalato in groppa al presidente, con le mani sugli occhi, per evitare i flash. “Fu un errore mio”, ha ammesso la première dame scusandosi anche lei, come il marito, invece di assumere, ostentare, brandire il cattivo gusto come espressione di libertà.
Certo, allora si parlava ancora di “rupture” e il termine veniva inteso in senso lato. Poi ci fu la crisi e la parola d’ordine divenne rigore, protezione, sobrietà. Per Sarko iniziò la rieducazione Bruni-Tedeschi, exit Johnny Hallyday, Jean Reno e i Bronzés, largo a Proust, Stendhal, Fellini e Pabst. Addio ai bei tempi del 2007, quando al massimo della profanazione Sarkozy si faceva fotografare saltando di corsa i gradini dell’Eliseo in calzoncini corti e scarpe da ginnastica. Era pure sudato, ma i francesi allora vedevano solo l’idillio, la luna di miele e apprezzavano il jogging presidenziale. Sarkozy aveva vinto le elezioni a mani basse col 53,06 per cento dei voti e una partecipazione dell’83,77. Aveva incantato, sedotto, rapito tutti con la promessa della “rupture”, con l’ansia di un nuovo assetto fondato su innumerevoli riforme, con la sincerità del politico sensibile all’amore e ai sentimenti, sino a diventarne schiavo, come un marito cornuto che era riuscito a riconquistare la moglie, ma… Nessuno aveva storto il naso per la scelta del Fouquet’s per festeggiare la vittoria la sera del 6 maggio. In fondo, non era che un banale ristorante per parvenu su una grande arteria equidistante tra la sede dell’Ump, dietro l’Eliseo, e la Place de la Concorde, dove era previsto il raduno della vittoria, con cantanti e concerto. Certo, magari sarebbe stato meglio festeggiare da Chez Edgard, ben più chic, o direttamente all’Ami Louis, massimo dell’eleganza politica. A metterci lo zampino, si scopre ora, fu Cécilia, e pure a stilare la lista degli invitati la cui rarità destò tante funeste gelosie (ammesso il manager Henri Proglio ma non il fidatissimo Franck Louvrier, per esempio). E solo qualche mese dopo, Ariane Chemin, grazie al suo fiuto da segugio, scoprì tutti gli altarini di quella serata iper burina, con cui un presidente appena eletto, o forse solo sua moglie depressa, nel giorno del trionfo avevano escluso tanti amici e collaboratori. Quella sera iniziò per lui la sequenza irreversibile della “ringardise”. Dopo il Fouquet’s venne il Paloma. Altra caduta di gusto. Gli intellettuali tentati dal sarkozismo, come Alain Finkielkraut, si misero le mani nei capelli. Capirono subito l’antifona: il presidente della “rupture”, del “merito”, che prometteva di ridare dignità al mondo del lavoro aveva detto che era pronto a chiudersi in un monastero in Corsica, e invece era scivolato nel lusso pacchiano di una vacanza a sbafo sullo yacht del miliardario Bolloré. “Quelle horreur”. Anche qui, c’era lo zampino di Cécilia che voleva garantire la privacy della famigliuola, evitando la pressione della stampa.
Allora però nessuno pensò di doversi giustificare. Le scuse, la contrizione, il mea culpa vennero cinque anni dopo, quando per riconquistare la simpatia dei francesi, in vista di un secondo mandato, Sarkozy ammise in tv di aver tradito la solennità della funzione, di aver mancato il suo ruolo istituzionale, di aver fatto una scelta che non avrebbe ripetuto.
Nel frattempo, alla lista delle burinaggini s’erano aggiunti il ritardo all’udienza dal Papa, dove Sarko decise di farsi accompagnare dal comico Bigard e passò il tempo a leggere e spedire sms, mentre Benedetto XVI parlava; poi l’aggressione al giornalista del Monde, in conferenza stampa, come se il capo dello stato potesse scendere a tu per tu con l’ultimo dei cronisti.
Infine il “casse toi pauvre con”, che fu l’apoteosi del cattivo gusto, dell’arroganza irredimibile, e tutti pensarono a Chirac, che insultato con “enculé” da un antipatizzante ebbe la prontezza di ribattere: “Enchanté, je suis Jacques Chirac”. La politesse d’abord…
Il Foglio sportivo - in corpore sano