Perché spedire un curriculum in Rai, se i curricula sanno solo mentire?

Stefano Di Michele

Bisogna perdonare loro (quelli del Pidielle) perché (al solito) non sanno quello che dicono. Essendo berlusconiani d’affezione piuttosto che di compenetrazione, mancano della “corda pazza” e dell’opportuna superficialità (essenzialità) di visione del capo. Così, burocraticamente, dove per l’artista una rosa è una rosa, per loro un curriculum è un curriculum. Manco potesse essere (se non addirittura dovesse essere), il curriculum, il riassunto vero di una vera vita.

    Bisogna perdonare loro (quelli del Pidielle) perché (al solito) non sanno quello che dicono. Essendo berlusconiani d’affezione piuttosto che di compenetrazione, mancano della “corda pazza” e dell’opportuna superficialità (essenzialità) di visione del capo. Così, burocraticamente, dove per l’artista una rosa è una rosa, per loro un curriculum è un curriculum. Manco potesse essere (se non addirittura dovesse essere), il curriculum, il riassunto vero di una vera vita. Così, chiedono che quello di Michele Santoro – finalmente inviato, insieme a Carlo Freccero: viaggiano due a due, quelli, come caramba, come Lilli e il vagabondo, come i Jalisse – contenga anche “il suo percorso politico”. Come se a qualcuno fregasse qualcosa – ma soprattutto come se un curriculum dovesse contenere l’esistenza di qualcuno. Un curriculum è un modulo, una carta, una menzogna – rispetto, s’intende, alla vita reale: la vita professionale e sociale e monetaria non ha bisogno di verità (non di tutta la verità, perlomeno: anzi, necessita del fatto che la verità venga dimezzata, frantumata, confusa). Figurarsi se Santoro e Freccero non hanno i titoli per andare al vertice Rai (ecco un altro posto dove un quarto di verità magari basta e avanza), piuttosto fa sorridere il fatto che, aspetta aspetta, buoni ultimi hanno mandato l’atteso elaborato. Le loro candidature, facevano notare l’altro giorno a Palazzo Chigi, “non risultano ancora pervenute”, come una volta accadeva con le temperature di Reykjavík. “E’ vero – ha poi spiegato Santoro – dovevamo spedire oggi i curriculum, sono pronti e imbustati, ma li spediremo domani”.

    Ufficio postale chiuso? Carenza di francobolli? Indirizzo di Monti sconosciuto? Perso il barattolo della colla Coccoina? Sia come sia, alla fine pure i pregevoli manufatti di San. & Frec. sono giunti – a fatica, come il rag. Fantozzi in certi film dove era costretto a competizioni sportive – ma sani e salvi. Le necessarie qualità saranno tutte elencate, l’indubbio valore esaltato, le risapute qualità sottolineate. Fosse intelligente almeno quanto un terzo della “Sfera” di Crichton, la Rai li prenderebbe al volo. Ma il problema non è questo: è la verità che quelli del Pidielle vorrebbero riscontrare nel curriculum in oggetto. Un curriculum è ciò che descriveva Wislawa Szymborska, “conta di più chi ti conosce che chi conosci tu… l’appartenenza a un che, ma senza un perché. Onorificenze senza motivazione. Scrivi come se non parlassi mai con te stesso e ti evitassi…”. Un curriculum era l’annuncio, sfottente e triste, che Bette Davis, due premi Oscar, che non riusciva a trovare più parti decenti, mise su un giornale: “Madre di tre bambini di 10, 11 e 15 anni, divorziata, americana, trent’anni di esperienza come attrice cinematografica, versatile e più affabile di quanto si dica, cerca impiego stabile a Hollywood. Bette Davis, c/o Martin Baum, Gac. Referenze a richiesta”. Un curriculum, in fondo, è la domanda come lavapiatti che la poetessa Marina Cvetaeva rivolge ai burocrati del Pcus. Per poi impiccarsi. A un chiodo, “chiodo, non gancio: a faccette, pesante”. E così, e perciò, al curriculum troppa verità non serve (lo sanno fare persino certe società specializzate – per dire del suo poco reale). E comuque in Rai, per fortuna, la tragedia non va in onda mai.