Arriva il voto di sistema

Pronta la riforma elettorale: sbarramento e premio di maggioranza

Salvatore Merlo

“La politica italiana è intrappolata per la seconda volta in una crisi di sistema. La domanda è: i partiti ne vogliono uscire, o no?”. Pier Ferdinando Casini, si sa, vorrebbe proiettare se stesso e i suoi due colleghi di Pdl e Pd, Angelino Alfano e Pier Luigi Bersani, verso una grande coalizione nel 2013 che perpetui la “strana maggioranza” a sostegno di Mario Monti. “Non possiamo permetterci di tornare alle vecchie divisioni”.

    La politica italiana è intrappolata per la seconda volta in una crisi di sistema. La domanda è: i partiti ne vogliono uscire, o no?”. Pier Ferdinando Casini, si sa, vorrebbe proiettare se stesso e i suoi due colleghi di Pdl e Pd, Angelino Alfano e Pier Luigi Bersani, verso una grande coalizione nel 2013 che perpetui la “strana maggioranza” a sostegno di Mario Monti. “Non possiamo permetterci di tornare alle vecchie divisioni”. Malgrado sia intimamente convinto di cadere in piedi qualsiasi cosa accada, malgrado coltivi la suggestione delle mani libere e sappia bene che persino l’attuale legge elettorale finirebbe con il premiare i suoi sforzi isolazionisti e neodemocristiani, Casini è il più sincero sostenitore della riforma proporzionale che Luciano Violante (Pd), Gaetano Quagliariello (Pdl) e Ferdinando Adornato (Udc) in gran segreto hanno portato a termine.

    Adesso il capo dell’Udc avverte l’obiettivo a portata di mano, non si sbilancia, teme sempre “il gioco di specchi” delle convenienze politiche altrui, diffida della troppa intelligenza di Massimo D’Alema e teme “l’innaffidabile” Silvio Berlusconi, ma vede pure assottigliarsi le file del trasversale partito antiriforma; ha osservato Giorgio Napolitano tenere insieme la complicata trama degli interessi correntizi del Pd, e malgrado la cautela, ora il leader dell’Udc si considera a un passo da un risultato che anche il Quirinale ritiene sia l’unica soluzione di sistema perché non si ripeta il grande botto del 1992-1993.

    I tre ambasciatori di Pdl, Pd e Udc si parlano, si cercano, si incoraggiano, vanno a colazione insieme. La loro andatura non ha nulla di ozioso e dilatorio. “Se il governo regge, si fanno sia la riforma costituzionale sia quella elettorale”, dice Quagliariello; “se ci pensate è quasi un miracolo”, aggiunge Ferdinando Adornato; e Luciano Violante: “La chiuderemo prima della fine di maggio”. Nessuno lo conferma, ma il testo da ieri c’è. E’ stata già convocata l’ultima riunione per la settimana prossima, poi la bozza sarà consegnata ad Alfano, Bersani e Casini, e sarà l’ABC a quel punto a sciogliere gli ultimi dettagli siglando un accordo che, dice Adornato, “suona come una rivoluzione per i rapporti fino a ieri incivili tra le forze politiche”. Ed ecco dunque la bozza cui manca la sigla definitiva di Alfano, Bersani e Casini: sistema misto, 50 per cento uninominale e 50 per cento liste bloccate (l’Udc vorrebbe portare al 60 per cento l’uninominale); sbarramento al 5 per cento; indicazione del premier (ma non obbligatoria); collegi ampi di almeno 350-400 mila elettori; assegnazione dei seggi per circoscrizioni e non attraverso il collegio unico nazionale (metodo che valorizza i partiti più grandi, quelli che superano la soglia del 10 per cento); e infine premio di maggioranza del 5 per cento per il partito che prende più voti (l’Udc vorrebbe abbassarlo un po’), al quale inoltre spetta – in base a una convenzione costituzionale – di guidare la formazione del nuovo governo.

    Certo i tre partiti coltivano orizzonti e ambizioni non sempre convergenti, persino al loro interno, e ognuno interpreta a modo suo la riforma e tutto ciò che questa implica nella ridefinizione dello schema di gioco: Casini vuole una grande coalizione e corteggia i ministri di Monti immaginando un suo partito democristiano che “assimili lo spirito e lo stile del governo tecnico”; Berlusconi è tentato dalla grande coalizione, è affascinato dall’idea di una legittimazione a sinistra, ma si prepara a ogni ipotesi assecondando la sua propensione naturale a farsi trascinare dagli eventi; mentre D’Alema non ci pensa nemmeno a una grande coalizione ed è un chiodo piantato al fianco di Bersani. Per l’ex primo ministro le cose andrebbero bene anche così come sono. Ma se proprio la riforma s’ha da fare, allora D’Alema suggerisce a Bersani, suo segretario e confidente, di puntare su un rapporto privilegiato con Casini e di rifiutare l’ipotesi “Monti bis” perché – pensa lui – “la speranza di un nuovo scenario deriva dalla possibilità che la sinistra vada al governo. Cioè da un cambiamento politico e non tecnico”. Detto in altre parole, circola una vecchia battuta di Walter Veltroni: “D’Alema è come Trapattoni, gioca sempre con lo stesso schema Pci-Dc”. Nel Pd, sondaggi alla mano, sono convinti di poter vincere, sono anche tentati da Di Pietro e Vendola (“con noi è vittoria sicura”, dicono loro) e tra gli ex Ds pochi pensano di affidarsi ancora a un governo di tecnici o di larghe intese malgrado questo sia invece il programma più o meno esplicito di ampi settori della ex Margherita (chiedere a Enrico Letta o a Beppe Fioroni). Dunque la riforma proporzionale nasce (se nasce) tra qualche equivoco e molti non detti che serpeggiano nei dedali che collegano i gruppi parlamentari della maggioranza.

    “Le prossime elezioni saranno da dopoguerra”, dice Quagliariello. Tutti i partiti guardano con preoccupazione alla scadenza della legislatura. Come la morte, le incerte elezioni del 2013 sono uno di quegli eventi così intrattabilmente e spigolosamente certi, che né Alfano, né Bersani né Casini sanno bene come collocarle nel quotidiano possibilismo della loro vita. “Nella più rosea e ottimistica delle ipotesi il più forte dei partiti sfiorerà la soglia del 30 per cento”, dice Adornato. E Quagliariello spiega: “Nessuno sa cosa può succedere. E’ saltato il cardine del vecchio sistema politico, cioè la dicotomia berlusconiani-antiberlusconiani. E sono saltate anche le coalizioni che hanno retto più o meno per diciassette anni. Non c’è più l’alleanza del Pdl con la Lega e non c’è più nemmeno l’accordo del Pd con Vendola e Di Pietro”. Insomma l’incertezza è assoluta e il timore di essere spazzati via, cancellati, è diffuso sia tra il personale politico del centrodestra sia tra quello del centrosinistra e dunque, malgrado ci si muova tutti un po’ al buio coltivando strategie parallele e non sempre compatibili, l’idea della riforma elettorale (e delle riforme istituzionali che dovrebbero essere approvate in Senato entro la fine del mese) appare come l’unica cosa certa che vagamente rassomigli alla salvezza comune per i partiti. “Nessuno di noi può pensare che Monti sia stato una parentesi e che tutto torni come prima”.

    Dunque la riforma si deve fare e “senza indugi”, come dicono con una indefinibile ombra di complicità i rappresentanti dei partiti, Violante, Quagliariello e Adornato. I tre ambasciatori scandiscono i tempi dell’agenda parlamentare: “Entro una settimana dobbiamo consegnare il frutto del nostro lavoro ai segretari per la ratifica politica”. Quagliariello aggiunge che “avrebbe un grande impatto simbolico se la nuova legge elettorale fosse approvata nel giorno in cui la riforma costituzionale, che implica la riduzione del numero dei parlamentari, avrà il primo sì al Senato. Questo è il mese decisivo per una riforma che non cancella il bipolarismo, ma anzi cerca di salvare il bipolarismo possibile”. Possibile, sì. Ma, pur indeboliti, gli avversari della riforma restano vigili sia nel Pd sia nel Pdl e sono pronti a trasformarsi in qualsiasi momento in un comodo alibi politico, sia per Bersani sia per Berlusconi, nell’improbabile (al momento) ipotesi in cui i leader volessero fare saltare tutto per aria. La corte del Cavaliere è abitata più da falchi che da colombe, e nel Pd (oltre a Romano Prodi con i suoi irriducibili) si agita sempre indecifrabile quella sfinge baffuta del vecchio D’Alema. Inoltre, come un'ombra, il condizionale "…se il governo regge".

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.