Elezioni, popoli e spread

Sergio Soave

La dittatura dei mercati schiaccia la democrazia dei popoli. In forme differenti e qualche volta addirittura opposte, questo sembra il senso comune che si sta diffondendo come base per una risposta alla crisi finanziaria internazionale. Naturalmente non è ragionevole mettere insieme le critiche di Giulio Tremonti con le invettive di Beppe Grillo, il richiamo alla difesa dello stato sociale delle socialdemocrazie e la protesta liberista contro il peso fiscale accresciuto dalla crisi.

    La dittatura dei mercati schiaccia la democrazia dei popoli. In forme differenti e qualche volta addirittura opposte, questo sembra il senso comune che si sta diffondendo come base per una risposta alla crisi finanziaria internazionale. Naturalmente non è ragionevole mettere insieme le critiche di Giulio Tremonti con le invettive di Beppe Grillo, il richiamo alla difesa dello stato sociale delle socialdemocrazie e la protesta liberista contro il peso fiscale accresciuto dalla crisi. E’ abbastanza facile spiegare che i mercati chiedono insieme rigore e crescita, il che rende arduo se non impossibile ottenere ciascuno dei due obiettivi.

    D’altra parte l’appello alla democrazia, cioè alla volontà popolare, spesso sconfina paradossalmente su una richiesta analogamente irrealizzabile, di aumento dei redditi determinato da politiche pubbliche di cui nessuno è in grado di definire i meccanismi razionalmente.

    A guardare la situazione che si è creata in occidente, si potrebbe dire che sia i mercati sia le democrazie sono vittime dell’illusione originaria, quella di una crescita inarrestabile come conseguenza della nuova fase politica determinata dalla fine della Guerra fredda e dalla dissoluzione dell’antagonista sovietico.
    Anche in base a quell’aspettativa si sono innescati o si sono consolidati meccanismi economici che hanno sottovalutato o addirittura valorizzato l’aumento sistematico del debito pubblico o di quello privato.

    Sono stati solo “i mercati” i responsabili di questa situazione? In Italia sappiamo quanto abbia inciso sulla crescita esponenziale del debito la politica di protezione fiscale dei ceti medi produttivi, ai quali si è chiesto invece che dare denaro allo stato, di prestarglielo sottoscrivendo titoli del debito pubblico. In America e in Spagna si è cercato di ottenere il consenso degli stessi ceti medi offrendo loro la possibilità di acquistare abitazioni fruendo di mutui superiori al valore dell’immobile. La vicenda dei “derivati”, in realtà, nasce da lì, dalla vendita del rischio assunto dalle società immobiliari su un altro mercato puramente finanziario, così come l’attendibilità dei debiti pubblici veniva messa a reddito con lo stesso sistema.

    Gli stati hanno autorizzato la creazione di questo mercato dei derivati che oggi viene denunciato come una specie di lotteria, proprio per la stessa logica di diffusione soprattutto nel ceto medio dei vantaggi attesi dal “traffico delle aspettative”, naturalmente crescenti.
    La ricerca del consenso del ceto medio è un elemento fondamentale della democrazia moderna, ed è abbastanza evidente che è più facile ottenerlo prefigurando un futuro di successi ininterrotti che sollevando dubbi sulla sanità strutturale del sistema.

    Per la verità la previsione di crescita globale dopo la fine della Guerra fredda non era sbagliata. Però l’effetto fondamentale è stata la liberazione delle potenzialità “capitalistiche” di vaste zone di quello che allora veniva considerato il “terzo mondo”, che, a eccezione di alcune aree soprattutto africane, ha modificato nettamente a proprio vantaggio i rapporti di forza economici e le ragioni di scambio con il mondo industrializzato. Questa estensione del mercato mondiale ha accelerato l’internazionalizzazione che è diventata un’occasione di intervento (anche speculativo, naturalmente) della finanza, mentre la decisione democratica non riesce a superare se non in modo surrettizio le frontiere nazionali.

    In questo quadro si inserisce il caso europeo, quello che più direttamente ha vissuto gli effetti politici e le conseguenze economiche, largamente inaspettate, della caduta del Muro di Berlino. La Germania occidentale, definita un po’ snobisticamente “gigante economico e nano politico”, seppe usare con rapidità e inventiva la sua forza economica per cambiare gli equilibri europei. Helmut Kohl, accettando la conversione alla pari del marco orientale con quello occidentale, una forzatura politica della logica di mercato quasi strabiliante, rese irreversibile l’unificazione tedesca, sulla quale le altre cancellerie europee erano assai scettiche.

    Cercò poi di ripetere l’operazione su più larga scala, in base alla formula “Germania unita in un’Europa unita”, promuovendo la creazione di una moneta unica, cioè, nella visione tedesca e non solo, di un marco continentale. La moneta unica è stata fatta, ma le strutture che ne dovevano garantire l’utilizzo restarono affidate a una strumentazione insufficiente, che lasciava i debiti al livello nazionale senza adeguata protezione europea. L’errore fu della politica, non dei mercati: basare la costruzione monetaria sull’aspettativa di una crescita inarrestabile fu uno svarione tragico di cui oggi si pagano le conseguenze. Le democrazie nazionali non erano pronte a cedere davvero la sovranità fiscale, inevitabilmente connessa a quella monetaria, così le hanno perse ambedue.

    Le hanno perse a vantaggio, si dice, della Germania, che detta le regole della tecnocrazia europea. E’ così, ma si è arrivati a questo punto anche perché le democrazie nazionali hanno praticato una politica ipocrita, sottoscrivendo accordi stringenti ancorché “stupidi” perché solamente aritmetici per “farsi imporre” dall’esterno i vincoli che non erano in grado di sottoporre alla verifica del consenso interno, politico ed elettorale. La Germania, invece, aveva una politica condivisa, sottoposta all’elettorato, di rigore interno come premessa per il rigore continentale, e l’ha realizzata. Gerhard Schröder ha pagato il prezzo pesante della tensione con le basi sindacalizzate del suo partito, Angela Merkel ha accettato la coabitazione nella Grosse Koalition, le due grandi formazioni politiche hanno agito di anticipo, senza cedimenti demagogici, e questa superiorità di visione politica è quella che ha conferito a Berlino il ruolo egemonico che sta esercitando. Lo esercita male, senza una comprensione sufficiente delle complessità europee, e quindi, per un difetto politico che rovina un successo politico precedente rischia di finire nell’isolamento.
    E’ a questo punto che si pone in termini nuovi la questione del rapporto tra mercati e democrazia, che ha un livello almeno continentale. Gli strumenti esistenti, pochi, e quelli progettati, molti e confusi, per affrontare in termini continentali il problema della pressione dei mercati internazionali, sono tutti “tecnici”. La struttura europea formalmente democratica, il Parlamento europeo, è solo un palcoscenico per esibizioni di buona volontà “politicamente corretta”, mentre il Consiglio, cioè la riunione dei governi, è stata finora la sede del trasferimento ipocrita delle scelte di rigore al livello non sottoposto a sanzione elettorale democratica.
    Se la democrazia resta confinata al livello degli stati nazionali, è naturale che vi si affermino tendenze nazionalistiche, che possono essere interpretate in forme demagogiche di tipo sociale o populista, ma che tendono comunque alla deresponsabilizzazione. Se la democrazia non ha la volontà e la forza di installarsi al livello nel quale si possono assumere le decisioni in grado di confrontarsi con le pressioni dei mercati, è destinata a perdere la partita per abbandono di campo, non per la forza preponderante dell’avversario che viene falsamente evocata solo per non affrontarlo seriamente.