D'Alema delle caverne
L’Europa l’ha scottato (candidatura a Mister Pesc andata buca nel 2009) ma all’Europa pur sempre torna, Massimo D’Alema, di tanto in tanto, quando le circostanze gli suggeriscono un nuovo bagno nel ruolo “grande réserve de la République”, con aspirazioni istituzionali e/o internazionali. Sponsor a distanza di François Hollande, co-ispiratore del Manifesto di Parigi in qualità di presidente della Federazione dei progressisti europei, instancabile ripetitore, in questi giorni, della massima “è andato in crisi il modello dei leader populisti”.
L’Europa l’ha scottato (candidatura a Mister Pesc andata buca nel 2009) ma all’Europa pur sempre torna, Massimo D’Alema, di tanto in tanto, quando le circostanze gli suggeriscono un nuovo bagno nel ruolo “grande réserve de la République”, con aspirazioni istituzionali e/o internazionali. Sponsor a distanza di François Hollande, co-ispiratore del Manifesto di Parigi in qualità di presidente della Federazione dei progressisti europei, instancabile ripetitore, in questi giorni, della massima “è andato in crisi il modello dei leader populisti”, Massimo D’Alema ha persino il baffo più morbido, quando fa l’ospite perfetto al convegno di ItalianiEuropei, al Tempio di Adriano a Roma, e accoglie Mario Monti con sollecitudine (scompare dietro le quinte in men che non si dica, “è arrivato il premier”, gli hanno detto) e sorride come il gatto di Shrek, quello che fa l’occhio mansueto e poi però chissà, e dispensa saluti baldanzosi al parterre culturale, industriale, bancario e professorale dell’evento: si va da Valentino Parlato a Sabina Ratti Profumo a Eugenio Scalfari a Mauro Moretti, amministratore delegato Fs, a Giuliano Amato a Elsa Fornero a Fabrizio Palenzona, sparsi tra ignoti ospiti dai nomi francesi che occupano tutte le poltroncine riservate.
Massimo D’Alema, in questi giorni, è in linea con l’ultimo Massimo D’Alema televisivo, quello che va da Fabio Fazio a “Che tempo che fa” e parla del mercato come del “nuovo Olimpo” (non per lui) e la metafora gli piace talmente tanto che la usa di nuovo, e più volte, in interviste e comizi, e poi però non è così morbido come sembra nel tirare fuori a sorpresa, davanti a Monti, la battuta “mi rincuoro, allora la sinistra c’è”, un attimo dopo che ha parlato il premio Nobel Joseph Stiglitz, dalemiano nel senso che D’Alema se l’è annesso come pensatore economico di riferimento (“l’austerità da sola non basta”, dice Stiglitz, e D’Alema annuisce soddisfatto come se l’avesse detto lui). Fa il conciliante, si mostra quasi equidistante e persino un poco montiano, D’Alema (“noi partito responsabile”, è il suo refrain da campagna elettorale) e va in brodo di giuggiole se si presenta l’occasione di parlare inglese (“professor Stiglitz” al Nobel oggi come “bye bye Condy” al segretario di stato ieri). Ma se uno per caso va sull’home page di ItalianiEuropei e legge l’editoriale dell’ex premier ed ex ministro degli Esteri, ora presidente Copasir, trova la frase che tradisce lo scalpitare del D’Alema sottostante, inchiodato senza dubbi al primato della politica e dei partiti: “La forza e il ruolo esercitati in Cina – seppure in forme autoritarie – dal Partito comunista”, scrive D’Alema, “sono, sia pure in una economia capitalistica di mercato, indiscutibili. Persino il professor Monti, che nel nostro paese giganteggia – e talora sembra compiacersene – rispetto ai partiti, sembrava uno studente emozionato alla Scuola dei quadri del Partito comunista cinese”. Alla fine è D’Alema che si compiace, e molto, all’idea (intanto sua, di altri ancora non si sa) di essere nuovamente un nome in qualche modo “spendibile”, come dicono i cronisti esegeti, “per un commissariato europeo”, “magari per una futura presidenza della Camera”, anche se non più per una presidenza della Repubblica, sogno svanito non molti anni fa (“perché lo sa anche lui che ora non è più il suo tempo”).
Massimo D’Alema, ultimamente, volentieri esce dalla caverna in cui pareva a conti fatti stare comodo (presidente del Copasir: pur sempre un signor ruolo, ma defilato; pur sempre un ruolo, ma non esposto al turbinio della prima linea) e fa incursioni mirate nel mondo della politica spicciola, sebbene guardandola dall’alto dell’aspirazione internazionale (o istituzionale): un’intervista al Corriere in marzo, una alla Stampa in aprile, una all’Unità dopo la festa della Liberazione, sempre per dire che ora in Europa ci vuole “la svolta”.
Ci tiene a mantenere vivi i buoni contatti tra ambasciate, cancellerie ed Europarlamento, D’Alema, anche se proprio da quei mondi, tra anni fa, è arrivata la preferenza fatale per Lady Ashton, altro che D’Alema mister Pesc – e pareva quasi impossibile, ché soltanto pochi giorni prima, in quell’autunno 2009, l’Economist aveva messo D’Alema tra i favoriti alla poltrona di ministro degli Esteri europeo assieme a David Miliband, e Silvio Berlusconi aveva dato un velato endorsement, e Gianni Pittella, uomo di D’Alema a Bruxelles, aveva orchestrato un gran lavorio per tenere “tutti i contatti possibili con il campo socialista e laburista”. Gli spin dalemiani, sotto la guida di Andrea Peruzy, uomo chiave di ItalianiEuropei, si erano spesi per tessere reti tra Martin Schulz e Poul Nyrup Rasmussen, ma il grande gioco era finito con un “niet”. E chissà se anche allora D’Alema aveva applicato le regole dell’altro grande gioco, quello disegnato negli anni Sessanta da Guido Crepax: “Alexandr Nevskij, la battaglia del Lago Ghiacciato”, feticcio dalemiano ai tempi della grande guerra “presidenziale”, intesa nel doppio senso della premiership e dell’eventuale presidenza della Repubblica, come racconta Alessandra Sardoni nel libro “Il fantasma del leader - D’Alema e gli altri capi mancati del centrosinistra” (ed. Marsilio). D’Alema il dissimulatore, quello convinto che “in politica se uno dice con chiarezza quello che vuole ha la garanzia che il suo obiettivo rimanga segreto”, aveva nel cassetto quel vecchio gioco da tavolo consunto, ispirato al film di Sergei Eisenstein, un classico da cineforum per la gioventù comunista, tanto che ancora negli anni Ottanta i giovani frequentatori occasionali della sezione Mazzini, quella di D’Alema, si vedevano consigliare dai compagni più anziani l’antico film sulla battaglia medievale impari tra cavalieri con armatura e contadini senza cavallo, dove non tutto era scritto, perché “il lago ghiacciato si poteva rompere” e “l’avversario collocava segretamente i punti di frattura decidendo i pesi per la rottura, un problema di estrema raffinatezza”, come diceva il D’Alema giocatore descritto ne “Il fantasma del leader”, alle prese con il sospetto universale di “inciucio” e “complotto”, dalla Bicamerale del ’97 al rovesciamento di Prodi del ’98, con il precedente del referendum per la segreteria Pds del ’94, vinto da Walter Veltroni a livello dei fax su cui avevano votato i dirigenti e gli amministratori locali del partito, e da D’Alema a livello di notabili di Botteghe Oscure. (Gioco tattico vuole, invece, che ora Veltroni dica frasi di rimpianto: D’Alema unico avversario di peso, con lui sì che si poteva parlare di politica, quando ci si scontrava sul governo Prodi).
Vai a capire se oggi le regole de “La battaglia del Lago Ghiacciato”, per esempio quella che impone di “dividere lo scontro generale in tanti scontri particolari”, sono utili a ottenere una rispettabile posizione oltreconfine. D’Alema ai suoi colleghi politici non pare “compulsivo”, nello sguardo all’Europa, come dice il deputato casiniano Roberto Rao che, da “attento lettore” di ItalianiEuropei, nel presidente del Copasir scorge “un’attenzione costante ma rarefatta, grandangolare, alle relazioni internazionali”. D’Alema intanto, tra un Manifesto di Parigi e un pensiero a Hollande, a Pier Ferdinando Casini ancora guarda, anche se il 29 aprile, intervistato sull’Unità da Simone Collini, ne parla con qualche traccia di saudade: “Casini vuole creare il Partito della nazione. Io direi che per ora un partito della nazione c’è, siamo noi. Non so se lui ne creerà un secondo, ma è un tentativo di cui capisco il significato”.
Tuttavia oggi si incontra anche gente che vede D’Alema “tutto preso ad accarezzare contro le sue convinzioni la foto di Vasto, non certo il massimo per un ultrà dell’alleanza al centro, ma Vasto è l’unica pur remota possibilità di tornare un giorno in pista per alti incarichi istituzionali”, dice un frequentatore di mondi dalemiani. E c’è chi non si è neppure troppo stupito di vedere D’Alema protagonista del retroscena pubblicato dal Corriere della Sera il 27 aprile, a firma Maria Teresa Meli, in cui il presidente Copasir appare nelle vecchie vesti di colui che dietro il baffo da gatto trama per le elezioni a ottobre – di nuovo ottobre, sempre ottobre, come l’ottobre del ’98 in cui avvenne il suddetto e cosiddetto “complotto” che segnò l’arrivo di D’Alema a Palazzo Chigi, con macchia indelebile per l’avvenire. Naturalmente l’idea di un D’Alema complottardo contro Monti è stata smentita dallo stesso D’Alema (è Berlusconi che “cerca di attribuire ad altri l’obiettivo per cui è incalzato dai suoi”, è “disinformazione”, ha detto all’Unità). Eppure permane, ovunque si parli di D’Alema, a torto o a ragione, l’impressione che da qualche parte ci sia dello zolfo, e che il baffo del gatto nasconda chissà che cosa, tanto che ormai, di D’Alema, non ci s’immagina neanche più la faccia, ma direttamente il baffo.
Resta, sulla strada di un ipotetico D’Alema che si butta a sinistra, la battuta di Matteo Orfini, esponente della segreteria pd, “Giovane turco” bersaniano con passato di dalemiano di ferro: “Vedo che la linea dei giovani turchi sta avendo diverse adesioni ex post: prima Dario Franceschini, poi Massimo D’Alema”, dice. Dove sono “i dalemiani di una volta? Ne è rimasto qualcuno?”, si chiede scherzando una cronista parlamentare, mentre nel Pd il presidente del Copasir viene descritto come un supporter modello che percorre in su e in giù la sua Puglia per la campagna elettorale “con generosità e coerenza”, dice il deputato pugliese pd Dario Ginefra, di osservanza non strettamente dalemiana, convinto che D’Alema, sempre interessato alla prospettiva di “sfilare” i centristi “all’abbraccio della destra”, non stia tuttavia “sottovalutando le pressioni populistiche esterne con cui i partiti devono fare i conti”. Ma almeno in Puglia ci sono ancora i dalemiani puri?, ci si chiede, e Ginefra dice che “in Puglia, per quanto si sia autonomi, è difficile prescindere dal mondo dalemiano, anche se un conto è D’Alema un conto sono i dalemiani”. Certo è che a D’Alema sono venuti i nervi quando il sindaco di Bari Michele Emiliano si è ritrovato “sputtanato” (parole del presidente Copasir) per un dono da pescheria a base di cozze, ché, era il ragionamento di D’Alema nel salotto tv di Fabio Fazio, una cosa è ricevere in regalo del pesce, altra cosa sono le responsabilità penali di chi ha preso “miliardi” dalle casse del partito, esplicito riferimento a Luigi Lusi.
In Puglia il disegno dalemiano è stato sconfitto alle primarie (che oggi D’Alema definisce “invenzione positiva a patto che ci siano delle regole”), ma è in Puglia che l’ex premier vuol mostrarsi ottimista: siamo il partito responsabile che ha salvato il paese, siamo l’unica forza, dice, a dispetto dei sondaggi che pure in Puglia danno in crescita le liste a Cinque Stelle spuntate ovunque e “vistate” da Beppe Grillo. D’altronde per D’Alema Grillo è solo un incrocio tra l’Umberto Bossi dei primi tempi e il Gabibbo, dunque non pericoloso, par di capire, secondo lui, ma un osservatore di psicologie ex-post-neo comuniste consiglia a D’Alema “attenzione”: “Non vorrei che nel Pd fossero ancora prigionieri, D’Alema in testa, dell’incantamento del ’93, un riflesso condizionato anche un po’ ingenuotto: vittoria amministrativa con gran gongolare successivo, chi si loda si imbroda, ed ecco che la sorpresa del ’94, l’arrivo di Silvio Berlusconi, si risolve in sonora sconfitta alle politiche per la sinistra”. Di sicuro il mito dell’“intelligenza” anche predittiva di D’Alema, in parte autoalimentato e comunque pervasivo in partiti e redazioni (ancora oggi c’è sempre qualcuno che dice “però è intelligente”), in qualche modo intortò il D’Alema del 2000, che scommise pubblicamente su una vittoria amministrativa poi inesistente, e firmò così l’autocondanna alle dimissioni.
Sia come sia, che sia ancora e sempre l’alto incarico istituzionale l’obiettivo di D’Alema o che il “percorso politico” fatto di cadute e “riprese” ma “mai di interruzioni”, come dice lui, lo porti nell’Europa sognata degli angeli e non dei “tecnocrati” che hanno “condannato” la Grecia, è il Colle di Giorgio Napolitano la sua croce e delizia: presidente amico, sì, ma ricetta montiana da digerire in fretta. E così capita che D’Alema dica a Federico Geremicca, sulla Stampa del 22 aprile, che la “contrapposizione ormai di moda tra tecnici (onesti e competenti) e politici (corrotti e ignoranti) sia “una falsificazione della realtà”, una “campagna distruttiva che apre la strada al populismo e alla tecnocrazia, che è cosa ben diversa da un esecutivo tecnico. Io sono stato al governo con personalità come Ciampi e Padoa-Schioppa, per dire quanto sia falso contrapporre politica e competenza… ma qui, del resto, siamo al punto che desta scandalo e sospetto perfino dire che domani il paese dovrà essere governato da chi vince le elezioni”. E capita che D’Alema scriva, su ItalianiEuropei, un’altra frase appena venata di sarcasmo, giusto per dare sollievo all’insopprimibile fissazione partitica, ora frustrata dal governo bocconiano chiamato dal presidente amico: “A che serve allora la politica? Quale utilità ha un insieme pesante e costoso di sovrastrutture istituzionali che non sembrano in grado di incidere per nulla sulla realtà e di deliberare nel senso atteso e voluto dalla grande maggioranza dei cittadini? Se il compito dei governi consiste nell’eseguire i ‘compiti a casa’ che i mercati finanziari, in sostanza, assegnano loro, allora davvero non serve che siano organismi politici, basta appunto, un governo tecnico…”. Succede persino che il D’Alema felpato da cancelleria europea sbotti, e dica a Fabio Fazio che succedono cose ben “curiose”: “E prima ci hanno detto dovete essere laburisti”, e poi “ci hanno detto dovete essere liberali”, e poi chissà, “ci diranno dovete essere reazionari”, e insomma “non basta mai”. D’un colpo svanisce anche la patina del D’Alema blairiano da Terza via, altro sogno inabissatosi ai tempi della battaglia da Lago Ghiacciato con Romano Prodi, poi definitivamente sepolto con la vicenda Unipol e infine ribaltato (con convinzione intermittente) in grido nostalgico da Fgci pre-Bolognina, al punto che oggi D’Alema ha lo sguardo dell’uomo cui non pare vero di poter dire che l’Europa “ha bisogno di sinistra” (con tanti saluti alla primitiva avversione per un Pd inclinato verso la sinistra che va all’indietro, per giunta al braccio di Antonio Di Pietro, uno che di sinistra non è mai stato).
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