Maureen Dowd alla guerra delle suore americane bastonate
La reazione più stizzita l’ha avuta il saggista Rod Dreher – autore del blog “Crunchy con” su beliefnet.com – che ha titolato il suo ultimo articolo così: “Maureen Dowd è un’idiota”. Ma in generale non sono pochi i conservatori americani, soprattutto cattolici, che non hanno preso bene l’ultima uscita della celebre columnist sul New York Times.
La reazione più stizzita l’ha avuta il saggista Rod Dreher – autore del blog “Crunchy con” su beliefnet.com – che ha titolato il suo ultimo articolo così: “Maureen Dowd è un’idiota”. Ma in generale non sono pochi i conservatori americani, soprattutto cattolici, che non hanno preso bene l’ultima uscita della celebre columnist sul New York Times. La Dowd – Dreher la ricorda di nascita cattolica e irlandese seppure ferocemente ostile alle gerarchie vaticane – ha difeso la Leadership conference of women religious, la Conferenza delle superiore religiose degli Stati Uniti d’America (Lcwr), alla quale si rifanno la maggior parte degli istituti religiosi femminili del paese, da quella che a suo dire sarebbe un’ingerenza vaticana. E’ di pochi giorni fa, infatti, la decisione della Congregazione per la dottrina della fede guidata dallo statunitense William Joseph Levada di commissariare la Lcwr. Dopo un’indagine interna durata due anni, il Vaticano ha affidato la Lcwr alla supervisione dell’arcivescovo di Seattle, James Peter Sartain, che dovrà lavorare per riportare le suore su una linea più aderente agli insegnamenti del magistero. Per la Dowd questo commissariamento conferma che il Vaticano, “e gli uomini medievali che lo gestiscono”, altro non vuole che “imbavagliare le suore”. Ma, si chiede, “come può il Vaticano sentirsi più offeso dalle suore che appassionatamente lavorano per i poveri piuttosto che dai sacerdoti pedofili?”.
Per la Dowd, “è ormai divenuta un’abitudine quella della Santa Sede di andare contro le donne, loro che sono il cuore e l’anima di parrocchie, scuole e ospedali”. E ancora: “I dirigenti della chiesa si comportano come adolescenti, accecati dal sesso”. Dreher, e con lui molti altri, dicono che la Dowd scrive senza sapere ciò di cui scrive: “Reagisce emozionalmente, senza cognizione di causa”. In sostanza, scrive senza riconoscere, o forse sapere, “che la Lcwr era prima del commissariamento un gruppo guidato da religiose radicali”, su posizioni post femministe in nulla aderenti a quella dottrina che la chiesa non può tradire. Ma “il Nyt le dà spazio” nonostante “il contenuto parrocchiale del suo scrivere”.
La contesa tra Dreher e Dowd è sintomatica di un dissidio sempre più evidente soprattutto all’interno della chiesa cattolica. Ci sono suore, preti e fedeli che non accettano gli insegnamenti della chiesa perché li ritengono troppo restringenti rispetto alle sfide della modernità. Dall’altra parte ci sono la maggioranza delle gerarchie che, dicendo l’opposto, rischiano di apparire come i grandi inquisitori. E’ quanto sostiene su America anche il gesuita James Martin: schieratosi apertamente in difesa delle suore – “le religiose cattoliche mi insegnano cosa significhi perseverare nel ministero senza il beneficio del potere istituzionale” ha scritto – Martin fa capire che Roma, il Vaticano, il Papa e i vescovi rappresentano un potere che tarpa le ali al rinnovamento e alla richiesta di riforma.
Il futuro della chiesa si gioca tutto qui: nell’incontro/scontro tra la dottrina e il tempo presente. Per le suore americane (e per molti fedeli), il tempo è da abbracciare perché sostanzialmente sempre e comunque “santo”. Le gerarchie non ritengono questa posizione sbagliata, ma la domanda che si pongono è: abbracciare quanto? Fino a quanto si può abbracciare il mondo? Fino a dove? Esistono dei limiti?
Le nuove leve dell’episcopato americano, in testa il cardinale arcivescovo di New York Timothy Dolan, si sentono come dei pionieri: sono loro, per la maggior parte di estrazione conservatrice, che stanno cercando più di altri il giusto equilibrio tra la dottrina di sempre e le sfide della modernità. Negli Stati Uniti li chiamavano “creative conservatives”, conservatori sì, ma insieme creativi.
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