L'ex candidato sindaco di Bologna si sarebbe suicidato buttandosi dal palazzo della Regione

Chi era Maurizio Cevenini

Claudio Cerasa

Al primo piano della sede regionale del Partito democratico, in un vecchio palazzetto rossastro costruito a due passi dallo svincolo bolognese dell’autostrada Adriatica, il numero di telefono di Maurizio Cevenini è quasi impossibile da trovare. Si cerca, si fruga, si chiede, si indaga ma alla fine, nel cuore operativo di una delle ultime regioni in cui il maggior partito dell’opposizione si ritrova a essere chissà per quanto partito di maggioranza, si scopre che il contatto del politico più famoso, della regione non è stato ancora inserito nella rubrica ufficiale del Pd.

    Al primo piano della sede regionale del Partito democratico, in un vecchio palazzetto rossastro costruito a due passi dallo svincolo bolognese dell’autostrada Adriatica, il numero di telefono di Maurizio Cevenini è quasi impossibile da trovare. Si cerca, si fruga, si chiede, si indaga ma alla fine, nel cuore operativo di una delle ultime regioni in cui il maggior partito dell’opposizione si ritrova a essere chissà per quanto partito di maggioranza, si scopre che il contatto del politico più famoso, più discusso, più popolare, più votato, più chiacchierato e forse persino più amato della regione non è stato ancora inserito nella rubrica ufficiale del Pd. “Ah, sì, sì, Cevenini… No, mi scusi, qui non abbiamo nulla”. Maurizio Cevenini, detto il Cev., detto il sindaco del Bologna, detto mister preferenze, detto mister matrimoni, nella vita fa il consigliere regionale del Partito democratico. Ma dire che il Cev. sia un consigliere come tutti gli altri è dire una cosa un pochino azzardata. Perché a Bologna, oggi, Cevenini è semplicemente l’uomo del momento: i giornali parlano di lui, i bolognesi parlano di lui, le televisioni parlano di lui, al comune parlano di lui, allo stadio parlano di lui, nelle edicole chiedono di lui. E si parla di lui non soltanto perché Cevenini rischia di essere davvero il prossimo sindaco di Bologna ma anche perché questo strano democratico, che dice di non rimpiangere l’Ulivo, che dice di sognare un Pd all’americana e che dice di essere persino affascinato dalla teologia del professor Ratzinger, ha una caratteristica che di questi tempi ha tutta l’aria di essere merce rara tra i democratici italiani. Detto in due parole: il Cev. piace un casino e piace a tutti. E gli unici a cui sembra non piacere troppo sono i suoi compagni di partito. Il motivo? Un mistero. O forse no.

    Maurizio Cevenini lo incontriamo a Bologna la mattina di domenica 26 settembre. Il Cev. indossa un abito scuro, una camicia bianca, una cravatta rossoblu, una piccola spilla anch’essa rossoblu con i colori della sua squadra del cuore (il Bologna) e una lunga fascia tricolore offertagli dal comune per celebrare i matrimoni. Sì, i matrimoni: non c’è sabato e non c’è domenica in cui, tra gli arazzi cinquecenteschi della sala Rossa al primo piano del comune di Bologna, non spunti fuori una cerimonia nuziale celebrata da mister Cevenini. Cinque oggi, cinque ieri, cinque l’altro ieri. In tutto, nella sua vita, il Cev. ha sposato qualcosa come 4.500 coppie negli ultimi quindici anni. Più di Cofferati, più di Prodi, più di Guazzaloca, più di Errani e più di qualsiasi altro politico mai comparso sulla scena bolognese. E i matrimoni del Cev. sono uno spettacolo da seguire: musica, canti, stornelli, canzonette, battute, risate, foto ricordo e monetine d’argento a forma di euro regalate a tutti gli sposi. Quattromila coppie sposate sono un numero da record e a Bologna il successo del Cev. ha sorpreso persino la diocesi della città. Lui, il Peppone di piazza Maggiore, elogiato dal don Camillo della città. Mica male. “I matrimoni celebrati da Cevenini – ha detto monsignor Vecchi, vescovo ausiliario di Bologna – sono un fatto non convenzionale molto importante per la vita di questa città”.

    Al termine dell’ultima cerimonia della giornata, dopo tre ore di celebrazioni e dopo aver stretto centinaia di manone festanti nel cortile che si affaccia sul porticato di piazza Maggiore, Cevenini invita il cronista a fare un giro sulla sua macchina. Il Cev. guida una graziosa Smart bianca modello for two con motore a tre cilindri, ma nonostante le apparenze la sua – con tutti quei vistosi gagliardetti del Bologna appesi sullo specchietto, con tutte quelle gomme da masticare con i colori del Bologna poggiate sul cruscotto e con quelle grosse fasce adesive fissate su entrambe le portiere con su scritto, bello grande, “BolognA”: con la A maiuscola per festeggiare la promozione in A della sua squadra del cuore – non è una macchina che in città passa esattamente inosservata. Saliamo sulla smart e il Cev. inizia a offrirci alcuni sfiziosi particolari della sua biografia. Cevenini ha 56 anni, è sposato, ha una bambina, è figlio di un barbiere, ha un fratello che fa il capo magazziniere, a vent’anni ha preso la tessera del Pci, a ventuno ha trascorso un anno da militare al confine con la Yugoslavia, a ventidue è stato assunto in una azienda sanitaria come centralinista, a ventotto è stato nominato amministratore delegato dell’azienda in cui era arrivato da centralinista, a trentaquattro è entrato nella Confindustria regionale, a trentasei è diventato assessore in un paesino a pochi km da Bologna, a quarantacinque si è ritrovato vicepresidente del Consiglio comunale di Bologna (“ai tempi di Guazzaloca, quando in molti batterono in ritirata con una tempistica non diversa da tutti quei giocatori della Juventus che non ebbero il coraggio di seguire la Signora quando questa retrocesse in serie B”), a cinquanta è diventato presidente del Consiglio provinciale, a cinquantaquattro ha partecipato alle primarie bolognesi (è arrivato secondo, poi ha chiesto di non entrare in giunta) e a cinquantacinque, pochi mesi fa, è diventato il consigliere regionale più votato del paese. 19.106 preferenze. Più di tutti. In proporzione, persino più di quanti ne ha ottenuti a Napoli il ministro Mara Carfagna.

    Dopo una lunga scampagnata tra le strade della città, Cevenini arriva in un minuscolo quartiere periferico ai piedi delle colline bolognesi. La via sia chiama San Mamolo, il civico è il numero tredici, ed è qui che sorge uno dei luoghi simbolo del suggestivo modello bolognese suggerito dal Cev.: il bar Ciccio. Un bar che oltre a essere uno dei locali più famosi della città; oltre a essere il luogo in cui è custodita la carena rossa offerta a Romano Prodi dalla Ducati quando Casey Stoner vinse il suo primo Motomondiale nella primavera del 2007; oltre a essere il ritrovo in cui la domenica pomeriggio si radunano professori, politici, scrittori, filosofi e semplici tifosi per gustarsi le gare del Bologna di Malesani è anche il posto in cui, nel marzo del 1996, fu piantato uno dei primi ulivi di Romano Prodi. “Sì, guardi, eravamo proprio lì”, dice il Cev. “Lì” è un tavolino di legno circondato da quattro sedie di plastica al centro del quale sboccia un alberello carico di olive. Quell’albero è stato interrato nel marzo del 1996 da Romano Prodi e da Maurizio Cevenini. All’epoca, il Cev. portava in giro il prof. a Bologna con la sua sgangherata Peugeot 306 rossa per seguire la campagna elettorale: il collegio in cui il professore fu eletto deputato era quello in cui oggi si trova il bar dei tifosi bolognesi, Ciccio, e il responsabile di quel collegio era mister Matrimoni.

    In effetti, l’ulivo piantato quindici anni fa dall’ex presidente del Consiglio si trova ancora di fronte all’ingresso principale del bar, ma di piantare in giro altri ramoscelli il Cev. dice che no, non gli sembra il caso. “Ulivi? Mannò, per carità. Il Partito democratico commette un errore se pensa di vivere nel futuro facendo resuscitare i simboli del passato. Siamo una cosa nuova, noi del Pd, e solo se ce lo mettiamo bene in testa potremo iniziare a crescere come si deve. Vede: secondo me sbaglia chi cerca di convincerci che il domani democratico non potrà fare a meno di parole come ‘Ulivo’ o come ‘Unione’: parole che da un lato ci ricordano grandi esperienze di governo ma che dall’altro nascondono l’intenzione di voler delegare all’algebra, alla mera somma numerica di un’infinità di partiti, un valido progetto politico. Il Pd ha bisogno di porsi all’interno della contesa elettorale in un ruolo centrale: con l’obiettivo di allargare il più possibile, e se poi alla fine qualcuno non ci sta pazienza”. Le parole che il Cev. pronuncia senza paura – e che in qualsiasi altra parte d’Italia farebbero svenire un qualsiasi militante democratico, che verrebbe istantaneamente accusato di essere, orrore orrore, un maledetto veltroniano – sono due: “Vocazione maggioritaria”. Cevenini dice che era quella l’idea vincente per il Pd: strutturarsi come unico partito catalizzatore degli entusiasmi e delle forze del centrosinistra evitando di riproporre sul palcoscenico improbabili armate Brancaleone. Si dirà: possibile che proprio qui, nel regno dell’Ulivo, nel regno del Mulino, nel regno dei prodiani e nel regno dei bersaniani, possibile che proprio qui, nel cuore sacro dell’impero prodiano, l’uomo che si candida a rimettere insieme quel che resta dei ramoscelli d’Ulivo sogni per la sua città, e magari per il paese, un qualcosa che ha tutta l’aria di essere un partito all’americana? Pare proprio di sì.

    “Io – dice Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica presso l’Università di Bologna e già candidato sindaco nel 2009 – credo che la figura di Cevenini rappresenti un unicum per un partito malandato come il Pd di Bersani. Si parla tanto di Papi stranieri, di presunte forze inespresse della società civile ma spesso i dirigenti del Partito democratico non si accorgono che le migliori potenzialità si nascondono tra i loro iscritti: basta cercarle. E in questo senso, posso dire che Cevenini è un caso esemplare. E’ un veltroniano non veltronizzato, un Renzi con la testa sulle spalle, un politico che è riuscito a costruire un rapporto laico con gli imprenditori e, soprattutto, è un militante che non fa parte di nessuna corrente. Facile dunque capire che di questi tempi, per il Pd, ritrovarsi tra i piedi un tipo come Cevenini significa ritrovarsi di fronte a una mezza rivoluzione”. Due domenica fa, il Cev. ha seguito da Ciccio la partita giocata dal Bologna contro la Roma di Claudio Ranieri. E’ stata una partita fortunata: il Bologna ha riacciuffato nell’ultimo quarto d’ora una Roma che aveva dominato i novanta minuti e anche Ciccio, alla fine, ha ammesso che il risultato era frutto di un sincerissimo biusdecùl. Con il Bologna, però, Cevenini ha un rapporto del tutto particolare. Gli anni di Calciopoli, tra le tante cose, sono stati anche gli anni in cui il Bologna è stato spedito in serie B e in cui i bolognesi hanno vissuto in un paradosso clamoroso: non esiste in Italia una città che ha prodotto così tanti politici (e aspiranti tali) di livello nazionale come Bologna – qui sono nati Casini, Fini, Montezemolo e nella vicina Reeggio Prodi – e allo stesso tempo non c’è stata, durante i mesi del processo più famoso della storia del calcio, una squadra come il Bologna così poco difesa dai grandi politici italiani. E non è certo un caso se proprio in quei mesi che hanno tormentato l’anima sportiva del capoluogo emiliano Cevenini è diventato una specie di eroe popolare: era lui l’unico a difendere il Bologna, l’unico a scendere in piazza per il Bologna, l’unico a non perdersi una partita allo stadio del Bologna ed era lui l’unico politico a essere riconosciuto da tutta la città semplicemente come “uno di noi” (al Dall’Ara gli cantano così al Cev: “Uno-di-noi Maurizio uno-di-noi”).

    Di calcio, poi, Mister Matrimoni ne capisce anche parecchio: conosce a memoria le formazioni titolari delle squadre che negli ultimi quarant’anni hanno sgambettato sull’erba del Dall’Ara e conosce bene anche il Bologna di oggi guidato da mister Malesani. Giocatori, calendari, tattiche, classifiche e statistiche varie. Sono sfumature, ma in politica, si sa, anche le sfumature contano parecchio. Per dire. Provate a chiedere a un Gianfranco Fini o a un Pier Ferdinando Casini o a un Romano Prodi chi diavolo sia Emiliano Viviano o in che ruolo giochi Marco Di Vaio. E provate a chiedere, tra le tante cose efferatissime di cui spesso venne ingiustamente incolpato l’ex sindaco Sergio Cofferati, quale era l’accusa ritenuta più grave dai bolognesi. “Tifava l’Inter”, vi risponderanno, e soprattutto Cofferati non aveva la minima idea né di chi fosse Emiliano Viviano (portiere del Bologna) né, naturalmente, di chi fosse capitan Marco Di Vaio. “Vedete – ci spiega Piero Ignazi, docente di Storia all’Università di Bologna e attuale direttore del Mulino – dietro la passione calcistica di Cevenini si nasconde una contraddizione che vive nell’anima più profonda del centrosinistra italiano. Si dice spesso che uno dei maggiori problemi del Pd sia quello di non avere una classe dirigente che sia capace di eccitare il suo popolo, ormai terribilmente annoiato. Ma ogniqualvolta un dirigente del Partito democratico si ritrova a discutere della possibilità di affidare un incarico di partito a un candidato che ‘piaccia alla gente’ cade sempre nello stesso tranello: lo accusa di non essere esperto, di non avere esperienza sulle spalle, di non essere tagliato per quel ruolo e finisce con il confondere la parola popolare con la parola populista. Quante volte abbiamo sentito dire: ‘Ragazzi, ma come si fa a candidare a sindaco uno che è diventato famoso andando allo stadio e celebrando matrimoni?’ Si fa si fa. E anzi dico di più: la storia di Cevenini, io credo, può diventare un grande esempio di come il Partito democratico dovrebbe reclutare tutti i suoi candidati”. Alla fine della partita contro la Roma, il Cev. esce dal pub: saluta, commenta, firma foglietti, sorride e risponde alle domande: Ti candidi o non ti candidi? Ci sei o non ci sei? Ci provi o non ci provi? Dice “non so”, “vedremo”, “chissà”, Cevenini, ma basta guardarlo un attimo negli occhi per capire che quel suo “non so”, quel suo “chissà”, altro non è che un “sì” sotto mentite spoglie. “Candidato io? Sì, io sono pronto, io ci sono, non importa se da primo”. Cevenini riaccende il motore della Smart e imbocca la strada che lo porterà all’Arena parco nord, dove da decenni si celebra la festa dell’Unità. Oggi alla Festa c’è la Lega e l’Arena è piena di gente. Sì, la Lega: perché a Bologna c’è tutto il capitolo che riguarda il partito di Bossi. L’Emilia è il regno di Prodi, certo, il regno di Bersani, il regno di Franceschini, il regno di Errani ma pur restando ancora oggi – e con ogni probabilità anche domani – solidamente nelle mani dei progressisti italiani l’Emilia è anche l’esempio massimo di tutti i rischi che corre il centrosinistra di fronte alla minaccia leghista. Bologna è la città del Pd, ovvio, ma in un certo senso oggi è anche un po’ la terra della Lega: la terra delle performance da sballo, la terra delle grandi rimonte, la terra dei sondaggi da paura, la terra in cui Umberto Bossi ha scelto di festeggiare i suoi 69 anni e la terra in cui i comizi del figlio Renzo vengono seguiti con uno schieramento di forze giornalistiche che non sarebbe assai diverso se al posto della Trota a Bologna fosse arrivato Barack Obama.

    Problema: ma chi sono i leghisti per i democratici? Sono nemici giurati, sono possibili alleati, sono un esempio positivo, sono uno stimolo negativo o sono soltanto mezzi furfanti? Su questo Cevenini ha le idee chiare. “Se i leghisti mi stringono la mano io non la tiro indietro: la allungo. Perché prenderci in giro? Perché non riconoscere che con gli elettori leghisti giochiamo spesso partite simili? E perché poi non iniziamo ad ammettere che siamo tutti dalla stessa parte? Che siamo tutti dalla parte dei comuni, delle tradizioni locali, del federalismo, delle autonomie, della protezione dei nostri territori. Oggi, è evidente, la Lega fa il partito di lotta e di governo; ma c’è poco da fare, un giorno le cose cambieranno, un giorno gli equilibri muteranno e quando questo accadrà dobbiamo essere pronti a non comportarci da ingenui e a capire che chi oggi sta di là prima o poi potrebbe stare anche di qua”. Il Cev. prende fiato, risponde al telefono, manda messaggi e poi inizia a commentare con gli amici alcuni articoli usciti in questi giorni sui giornali: si parla della storia della moschea (il Cev. dice che “un buon democratico dovrebbe riconoscere che una grande moschea, in un posto come Bologna, sarebbe una forzatura farla”), si parla della storia dei matrimoni gay (Cevenini è convinto che finché la legge sarà così com’è, lui non farà come Chiamparino “e non celebrerà mai simbolici matrimoni tra persone dello stesso sesso”), si parla delle primarie che sono ancora lontane (si vota il cinque dicembre), si parla dei prossimi giorni in cui potrà accadere di tutto (il segretario regionale del Pd, come si è soliti dire in questi casi, dice di non aver ancora “sciolto la riserva sul Cev.”), e si parla della gente ormai stufa dopo i clamorosi pasticci legati al caso Delbono (sindaco eletto nel 2009 e costretto appena un anno dopo alle dimissioni dopo essere stato indagato per peculato, truffa aggravata e abuso d’ufficio). Poi il Cev. si ferma e ricomincia a chiacchierare.

    La Lega, si diceva. “Se abbiamo paura della Lega? No. L’Emilia è forse l’unico posto in cui i leghisti che hanno fatto la fortuna con le tecniche dei vecchi comunisti incontrano sulla loro strada qualcuno che è ancora più comunista di loro: e fino a che noi manterremo la nostra identità, e la nostra passione, ve lo garantisco, state tranquilli che da qui non si passa”. Sono le diciotto e trenta, lo speaker della Festa annuncia l’arrivo in sala di Walter Vitali (ex sindaco di Bologna e senatore del Pd), di Vasco Errani (governatore dell’Emilia) e infine di Roberto Calderoli (ministro per la Semplificazione): si discute, si chiacchiera, si dibatte di federalismo, un po’ si litiga ma si riesce a litigare senza mandarsi necessariamente a quel paese. “Mo’ Maurissio mio – gli sussurra all’orecchio un’anziana militante – mo’ cosa aspetti ancora a toglierceli tutti quanti via dai maroni?”. Alla fine, il Cev. si allontana dal caos assieme all’addetta stampa della Lega, fa un giro tra le salemelle e le sasizze, discute fitto fitto con la ragazza, poi torna indietro, gli si avvicina un ragazzo, gli chiede un autografo e gli dice che, con quel faccione lì, il Cev. somiglia da morire a Roberto Falcao. Cevenini risponde che, sì, ogni tanto anche lui gioca a calcio, gli racconta che è capitano della Nazionale dei consigli comunali (eh sì, esiste pure questa), il ragazzo si incuriosisce, prende coraggio e decide di fargli una domanda. “Ehi Cev., ma in che ruolo giochi?” Quasi non aspettasse altro, Mister Matrimoni lo guarda e gli risponde d’un fiato. “Dietro la difesa, ragazzo, dietro tutti: libero”.

    Leggi la notizia della morte dall'agenzia Agi

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.