Così il cinema italiano dissolve la cronaca politica in fiction chiacchierona
Sono da tempo nelle sale due film che ricostruiscono due pezzi di storia italiana: “Romanzo di una strage” e “Diaz”. Anche al netto delle tesi bislacche a cui si rifà il primo, e che Adriano Sofri ha già smontato, entrambe le opere suscitano una perplessità di fondo. E’ la perplessità che affiora periodicamente davanti a questo intramontabile filone del nostro cinema, dalle pretese insieme “poetiche” e “civili”.
Sono da tempo nelle sale due film che ricostruiscono due pezzi di storia italiana: “Romanzo di una strage” e “Diaz”. Anche al netto delle tesi bislacche a cui si rifà il primo, e che Adriano Sofri ha già smontato, entrambe le opere suscitano una perplessità di fondo. E’ la perplessità che affiora periodicamente davanti a questo intramontabile filone del nostro cinema, dalle pretese insieme “poetiche” e “civili”. Guardando scorrere sullo schermo le immagini compiaciutamente cupe e truculente, ricalcate su un immaginario da novecentesca fotografia di guerra o da film di spionaggio, non si può fare a meno di pensare che l’errore (o la malafede) è alla radice. Ci si chiede, insomma, se proprio l’atto di “romanzare”, di “far fiction” non corrisponda quasi sempre, in simili casi, a una cattiva azione.
Qual è infatti lo scopo? Informare su controversi e (diversamente) terribili fatti di storia patria? Se è così, perché non girare un buon documentario (per il quale occorre comunque un vero talento saggistico)? Infatti le esigenze della fiction non sono adatte a un’analisi complessa degli eventi; e di solito, anziché provocare il senso critico dello spettatore, finiscono per impigrirlo, facendogli credere di aver compiuto, una volta uscito dalla sala, tutto il suo dovere di approfondimento. Ma se lo scopo non è la più sottile delle inchieste, si tratta forse di opere che inquadrano la strategia della tensione e il G8 di Genova per inscrivervi un loro arduo progetto estetico – magari con la sobrietà di un Amelio o il surrealismo di un Bellocchio? No, neppure questo è il caso: come si accennava, i modelli estetici sono qui tutti desunti. In realtà, si ha l’impressione che nei due film una certa patina stilistica faccia da alibi alla piattezza interpretativa, e che viceversa la pretesa oggettività della cronaca voglia coprire la corrività formale. Come dire che su entrambi i piani, “forma” e “contenuto”, manca una necessità stringente.
Per questo, “forma” e “contenuto” rimangono giustapposti e facilmente scindibili: come avviene sempre dove nessuna idea originale permea a fondo ogni strato dell’opera, dove si intrecciano estetismo e mediocre divulgazione. Si vedano lo sgranato di “Diaz”, il montaggio a ritroso, il leitmotiv della bottiglia kubrickiana lanciata davanti a un’auto della polizia: cosa ha a che fare tutto ciò con il tema? Nulla. Non è che una tecnica narratologica applicata a freddo su una materia altrettanto “fredda”. “Romanzo di una strage” appartiene a una tradizione più misurata, quella del “Muro di gomma” e di “Un eroe borghese”: ma anche qui, che inutile dispendio di forze scenografiche e attoriali! E come suona falsa la suggestiva hollywoodizzazione dei personaggi! Siamo all’estetica del telefilm, alle sue dozzinali macchine catartiche. Ma con un punto a sfavore di questo cinema. Perché i veri telefilm devono avere un’economia interna, essere autosufficienti: mentre qui vengono presupposti dei complicati contesti (atti, ideologie, vulgate) che non trovano un’adeguata rappresentazione, e senza i quali tuttavia i “testi” sarebbero di per sé incomprensibili. In “Romanzo di una strage” la cosa è evidente. In “Diaz”, invece, il vuoto di contesto finisce per rivelare anche altro, anzi per ritorcersi beffardamente contro il retorico disegno della trama. Quando infatti, per arrivare a descrivere l’ignobile prova che dettero quella notte le forze dell’ordine, il regista ritrae i ragazzi del social forum, non mette mai in bocca a nessuno un solo contenuto politico. Si può ribattere che non era nell’intento del film.
Ma sarebbe una risposta debole. Perché in compenso, per far spiccare con nettezza eroica e patetica i membri anche più giovani del movimento No Global, si sottolinea in loro una calma determinazione partigiana, si allude alla condivisione di un ineffabile imperativo ideologico di cui non si sa nulla. Perciò quel che risulta da questi ritratti è l’atroce, “vuota” parodia di un movimento. Solo qui, senza volerlo, l’autore ha sfiorato una verità: e cioè che nelle occasioni come Genova scompare il motivo del contendere, e si acutizza al massimo un puro “gioco di ruoli”. Ecco: solo una storia “recitata”, che diventa krausianamente più reale e violenta proprio in quanto recitata, legittima per un attimo la recitazione altrimenti stucchevole con cui il nostro cinema dissolve la cronaca politica in fiction acchiappa-dibattito.
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