Diario della bolla

Paola Peduzzi

Scusate, ma io c'ero. Quando alla fine degli anni Novanta scoppiò l'enorme bolla internettiana in faccia a giovani di belle speranze che volevano cambiare il mondo un business plan alla volta, io c'ero. Ero una di loro. Ero in California, a godermi il mio regalo di laurea (otto mesi a girare il mondo), studiavo inglese, volevo imparare ad addestrare delfini, quelli che vanno a sminare i mari, venivo interrogata dagli americani che mi dicevano: “Tu che sei italiana, lo sai per forza. Che cos'è il Kosovo?”, rispondevo con tutto il clintonismo possibile (che era oltre la soglia di tolleranza persino dei clintoniani), e preparavo business plan.

    Scusate, ma io c’ero. Quando alla fine degli anni Novanta scoppiò l’enorme bolla internettiana in faccia a giovani di belle speranze che volevano cambiare il mondo un business plan alla volta, io c’ero. Ero una di loro. Ero in California, a godermi il mio regalo di laurea (otto mesi a girare il mondo), studiavo inglese, volevo imparare ad addestrare delfini, quelli che vanno a sminare i mari, venivo interrogata dagli americani che mi dicevano: “Tu che sei italiana, lo sai per forza. Che cos’è il Kosovo?”, rispondevo con tutto il clintonismo possibile (che era oltre la soglia di tolleranza persino dei clintoniani), e preparavo business plan. Lì, anche senza volerlo, ti imbattevi in qualcuno che era alle prese con un progetto da fine del mondo, una proiezione, un ricavo milionario. C’era anche sempre “un investitore che crede in me, mi ha detto che ho avuto un’idea geniale”, ma se devo dire la verità non ne ho mai visto uno di persona. Incontravo soltanto piccoli aspiranti imprenditori che sparlavano dei lavori da dipendenti, che dicevano di voler essere padroni del loro destino, amanti del rischio, perché convinti che, con idee così, c’era soltanto il rischio di vincere.

    Non sapevo niente del lavoro, venivo da quella fantastica nuvoletta che si chiama Bocconi, l’unica volta che ero entrata nel mondo reale era stato a Torino, a L’Oréal, uno stage al marketing, lavoravo sul riposizionamento di uno shampoo – mi ricordo soltanto che c’erano armadi pieni di trucchi e di creme e potevi prendere quello che volevi, tutti i giorni un saccheggio, un sacco di regali alle amiche, ombretti di colori mai visti. Grazie a questa esperienza, ancora oggi riconosco le marche di shampoo soltanto dal profumo, ma già allora intuivo che quella pur straordinaria abilità non mi avrebbe dato da vivere. Ecco perché l’Internet sembrava anche a me un’occasione eccezionale per non dover fare colloqui di lavoro o, peggio, dovermi interrogare su quel che davvero volevo fare, diventare, essere.
    Eravamo tutti euforici, ci sentivamo benedetti dalla sorte, un mercato tutto nuovo lì apposta, proprio quando stavamo arrivando noi. Ogni volta che riuscivamo a infilare un numero in mezzo ai secchi di parole che ci rovesciavamo uno sull’altro ci sentivamo a un passo dal successo, ci mandavamo email notturne per non perdere intuizioni rivoluzionarie, studiavamo anche tanto, per capire i trucchi del mestiere di chi ce l’aveva fatta. Ho scritto almeno cinque business plan, uno l’ho presentato a un’azienda importante che non mi ha mai ricontattata: qualche mese dopo il mio incontro, quell’azienda mise su un progetto che assomigliava molto al mio, ma durò molto poco, non funzionava. Rivedevo tutti i miei errori, tutte le mie ingenuità, tutte le mie inesperienze in quel servizio strambo: forse l’avevano davvero preso in considerazione, il mio business plan, ma non mi sono mai sognata di rivendicare la paternità dell’idea, e per fortuna loro non sono venuti a rinfacciarmi tutte le cazzate che avevo scritto. Quando ho dovuto mettere la testa a posto, rientrare in Italia e cercarmi un’occupazione, ho tradito la causa delle start up, e ho lavorato in grandi aziende del settore, Infostrada e Microsoft: ci chiamavamo tutti “manager” e continuavamo a sentirci molto credibili. Quando la bolla ha spazzato via tutto, non ho subito danni fisici, perché le grandi aziende ridimensionarono soltanto le aspettative, non crollarono, e ho continuato a essere un manager. Ma ho sentito male lo stesso.

    Oggi mi sembra di rivivere quella sensazione, anche se non sono più su una nuvola, il mio rettore-presidente della Bocconi è diventato primo ministro, faccio un altro mestiere, non incontro più aspiranti imprenditori né surfisti né delfini ma soltanto mamme che corrono dietro a piccole furie, e soprattutto non c’è più Clinton. La vedo arrivare di nuovo, quella bolla. Non che abbia qualcosa contro le bolle: servono per far crescere un mercato e, quando scoppiano, ripuliscono, lasciano soltanto chi ha la forza per rimanere. Però quando le bolle escono dalla finanza e dalle Borse e dalle speculazioni, finendo nell’economia reale, le cose cambiano. Ora che ci siamo in mezzo, in questo post bolla (immobiliare) scoppiata, lo sappiamo bene: non c’è lavoro, non c’è consumo, non c’è allegria. Non lavoro più nell’Internet, ma il mio attuale settore non è di quelli solidissimi: in questi anni sono stati chiusi non so quanti giornali, l’editoria è morta e rimorta, non è mai risorta, è sempre agonizzante. Mi darebbe davvero fastidio che un’altra bolla, tipo quella che vedo arrivare, questa volta spazzasse via anche me. Una bolla così antipatica, poi.

    Prendiamo Facebook. Non so esattamente di che cosa parlo, perché non sono mai andata su quel social network: tutti pensano che sia un mio vezzo, tipo non avere la televisione in casa (che io ho e guardo fin troppo), ma non è così. E’ che non capisco tutto questo desiderio di socialità, non capisco perché devo essere contattata da qualcuno che non vedo da anni, quando è evidente che se non ci vediamo da così tanto tempo un motivo c’è, non capisco come si faccia a condividere i fatti propri con così tanta gente. Forse non capisco le potenzialità del mezzo perché non sono più in età da marito, ma ancora adesso – che il social network è quasi nella sua fase discendente, fa figo disiscriversi – quando qualcuno dice “ci siamo incontrati su Facebook”, “l’ho visto su Facebook”, “lo cerco su Facebook”, mi viene il nervoso (disclosure: mio marito è su Facebook, ho mandato una volta un’amica a sbirciarlo e poi mi è toccato fare un interrogatorio casalingo. Dicevo: quella ti ha mandato una foto, questa chi è, perché dice “I like”, tutte cose a caso. Mio marito se l’è cavata facile: o sai di che cosa parli o vai in cucina a controllare se bolle l’acqua, che almeno mangiamo). In realtà non capisco come si possa pensare di poter condividere qualcosa di privato on line: ora c’è un sito che si chiama Pair, tipo un social network per la coppia, che vedi solo tu e il tuo partner, e lì ti puoi scambiare foto, video, messaggini, tutto quello che vuoi, senza che nessuno ti veda. Romantico, no? Solo che poi le coppie finiscono, spesso anche senza troppe gentilezze, e che ne è di tutto quell’amore scambiato on line? Resta lì pronto per il successivo, inevitabile sputtanamento dell’ex. Bell’affare, il social network a due. La vedete no, la bolla della socialità? Ecco, il passo successivo è pagare un miliardo di dollari un’azienda che non fa ricavi.

    Facebook è un’azienda strepitosa, rappresenta un paese da un miliardo di persone, l’anno scorso ha fatto ricavi pari a 3,7 miliardi di dollari, per lo più con la pubblicità, in crescita del 50 per cento rispetto all’anno precedente. Il suo fondatore, Mark Zuckerberg, è sufficientemente sociopatico da rimanere lucido di fronte a questo successo planetario, si sveglia ogni mattina senza sentirsi troppo un genio ma con l’idea di rispondere alla domanda: “Che cosa posso inventare oggi per quella massa di cretini?”. Domani c’è l’Ipo di Facebook e se tutto va come deve andare il mercato valuterà l’azienda più di cento miliardi di dollari. Cento miliardi di dollari (106, per essere precisi) per un’azienda che otto anni fa non esisteva nemmeno. Se tutto va come deve andare, Zuckerberg diventerà “impossibly rich”, seduto su una montagna di soldi superiore a quanto i diecimila negozi Wal-Mart hanno guadagnato lo scorso anno, più di tutti i bonus di Wall Street dell’anno scorso messi assieme. Se tutto va come deve andare, anche la notizia di General Motors che toglie inserzioni da Facebook perché non fruttano finirà persa tra le pretese dei milioni di ragazzini che chiedono a papà: ti prego, comprami le azioni di Facebook.
    Zuckerberg fa il ragazzino sfrontato, e si presenta all’incontro con i banchieri indossando una felpa col cappuccio. Quanto basta per moltiplicare gli articoli su “Zuckerberg è pronto, è diventato grande, ha capito che cosa gli sta accadendo?”, come se da piccolo non fosse stato in grado di generare denari, tantissimi denari, dal nulla. Ha già dimostrato di poter competere alla pari con i banchieri più spregiudicati del mondo: basta vedere che cosa ha combinato a Goldman Sachs non più tardi del gennaio scorso. La banca vampiresca avrebbe dovuto gestire l’Ipo di Facebook, con un progetto molto ambizioso che, guarda caso, è finito in un articolo del New York Times (firmato dall’ineffabile Andrew Ross Sorkin) prima che la comunicazione arrivasse ai clienti Goldman. La Sec ha minacciato controlli, la banca ha dovuto fornire garanzie in tempi troppo rapidi, gli utenti di Facebook si sono indignati, e nel tam tam Goldman è uscita triturata (la banca che gestisce l’Ipo è Morgan Stanley, poi c’è JPMorgan che non se la passa benissimo di questi tempi e Goldman è scivolata al terzo posto).
    Zuckerberg ha dimostrato di essere uno abbastanza spavaldo da scrivere sul proprio biglietto da visita “I’m Ceo, bitch”, abbastanza sveglio da occuparsi personalmente soltanto delle cose in cui eccelle, abbastanza strategico da delegare a manager esperti le operazioni su cui è debole. Ha tutta l’aria di essere un leader Zuckerberg, no? Il problema non è la sua psicologia, il problema è la psicologia degli utenti di Facebook, che poi diventeranno anche clienti, e c’è il rischio che il meccanismo così ben oliato della socialità a tutti costi finisca per incepparsi.
    Da un lato c’è la percezione. Facebook è il paradiso dei social network, ma meno paradisiaco di quanto fosse qualche anno fa. Anzi, si parla già di “Big Tech”, versione tecnologica di “Big Oil” e di tutte le oligarchie presenti sul mercato globale, che come si sa non riscuotono simpatie. A febbraio, tanto per fare un esempio, un fondo pensione della California ha fatto causa a Facebook attaccando la sua corporate governance: nessun rispetto per la diversity e un dittatore (Zuckerberg) che accentra potere controllando il 57 per cento delle voting stocks. L’accusa in sé è piuttoso banale, ma rivela un sintomo: non vendeteci la storia romantica di un garage e un’idea che diventano rivoluzionarie, siete manager spregiudicati tanto quanto i banchieri o i petrolieri. Considerata la facilità con cui Occupy s’accaparra qualsiasi campagna populista, è un attimo che i forconi arrivino anche nella Silicon Valley.
    Questi problemi, tutto sommato, si combattono con una buona dose di public relation (su cui, guarda caso, Facebook sta investendo parecchio). Poi ci sono i numeri. Per la prima volta da quando l’azienda ha iniziato a fare ricavi, nel primo trimestre del 2012 c’è stata una flessione, “quite a drop”, ha commentato il solitamente gelido Tech Blog del Financial Times. Il margine operativo di Facebook è crollato dal 53 al 36 per cento, un dato ben più basso rispetto alla fisiologica tendenza a un calo nei primi mesi dell’anno. Per ora si tratta di un unico risultato negativo, è presto per fare previsioni sul business della compagnia, ma dopo venerdì questi dati diventeranno materia sensibile per le Borse che sono, come sappiamo bene noi schiavi di Lady Spread, parecchio suscettibili.

    Quando Facebook ha comprato per un miliardo di dollari Instagram, la minuscola compagnia che permette di condividere le proprie foto (altro elemento cardine della socialità: farsi vedere, mostrarsi, abbellirsi o peggio ancora mostrificarsi, “tanto io non mi prendo sul serio e mi piacciono gli uomini che mi fanno ridere”, e tutti questi atteggiamenti che mi confermano il fatto che la fine del mondo è vicina), c’è stato un certo allarme. Zuckerberg si è messo a fare il gradasso, dicevano molti, Instagram era stata valutata, nelle migliori delle stime, 500 milioni di dollari, cioè la metà di quello che ha pagato Facebook. Ma è stata una mossa pazzescamente intelligente: Instagram stava crescendo troppo, a ritmi altissimi, con in più una passione da piccola comunità che fa tanto bolla emotiva attorno a qualsiasi strumento di socialità. Stava diventando Facebook, insomma. E Zuckerberg ha pensato bene di farla sua, costi quel che costi. Ma se la strategia è geniale, la domanda resta: che cosa differenzia l’acquisto di un’azienda cool per il doppio del suo valore da una bolla internettiana?

    Gli esempi di eccessi sono tanti (a parte Groupon, il colosso dei coupon, che è imbattibile: Ipo fantasmagorica nell’autunno scorso, ora se cercate Groupon su Google spesso vi trovate anche “sarà il nuovo caso Enron?”). Uno su tutti: Tumblr, la piattaforma per i blog più cool del decennio. Il suo fondatore, David Karp, aveva 21 anni quando nella stanza da letto di sua mamma, versione newyorchese del garage californiano, creò questa azienda. Era il 2007, Karp aveva avuto un’esperienza in Giappone, voleva costruire robot ma era finito per impratichirsi sui codici della rete, “ero così stupido – ha detto al Guardian – cercavo di essere molto formale e di parlare con una voce profonda al telefono in modo da non dover incontrare i clienti, che sarebbero scappati vedendomi così giovane. Ho mentito sulla mia età, su quanta gente lavorava con me, sulle mie esperienze, ho vissuto nell’imbarazzo non so quanto tempo”. Oggi Karp rappresenta l’ultima frontiera del glamour on line, 50 milioni di blog aperti, compreso quello di Barack Obama ovviamente, è il pioniere del trasferimento sulla east cost del meglio dell’Internet: ha costretto anche Facebook ad aprire un ufficio a New York. Il suo modello di socialità è l’autoespressione: scrivere, raccogliere video o foto, insomma esprimersi. Tumblr genera più pagine viste di Wikipedia e Twitter, nel Regno Unito è stato l’anno scorso il social network più popolare (secondo soltanto a Facebook, che Karp dichiara di non utilizzare più di tanto), ha raccolto 85 milioni di dollari da alcuni investitori nell’autunno scorso e ora l’azienda viene valutata attorno agli 800 milioni di dollari. Tutto questo senza aver mai pensato di guadagnarci su qualcosa, non perché Karp non sappia come fare, ma perché gli piace avere a che fare con un giocattolino molto cool e molto disinteressato. Un paio di anni fa aveva dichiarato: “L’idea di mettere una pubblicità su Tumblr mi fa venire il voltastomaco”. Giovane e infastidito dai soldi – che bolla meravigliosa. Di recente, Karp ha cambiato idea, “forse allora ero un idiota”, ha detto col candore di un venticinquenne con la felpa che dal 2 maggio ha infilato uno spazio pubblicitario a pagamento in un posticino di Tumblr che fa 120 milioni di impression al giorno. Se prima di fare ricavi la compagnia di Karp valeva 800 milioni, chissà adesso: Instagram sembra già una nocciolina.

    La bolla della socialità trova la sua massima espressione nel signor Chade-Meng Tan, 41 anni, nato a Singapore, laureato in Ingegneria, un umorismo al limite del tollerabile e suonerie del telefono di “Star Wars”. E’ un impiegato di Google, il numero centosette, la sua mansione è: “Jolly Good Fellow (Which Nobody Can Deny)”, che sembra uno scherzo ma non lo è. Nella gerarchia aziendale, un “Google Fellow” è il massimo grado che un ingegnere può ottenere. Meng è molto oltre. Ha iniziato a studiare teorie del comportamento, ha visto che c’era del disagio a Google e si è messo a fare corsi “spontanei” dal titolo “Cerca dentro te stesso”, un misto di buddismo, numeri, linguaggio da nerd e teoria delle emozioni. “All’inizio fu un tentativo clandestino – dice Meng al Times – Ma non mi hanno licenziato”. Anzi, i corsi sono stati istituzionalizzati dall’ufficio delle risorse umane e oggi per i quattro appuntamenti annuali del Programma Cerca Dentro Te Stesso c’è la lista d’attesa (e ovviamente c’è anche un libro). Il successo di Meng non è rimasto dentro l’azienda, perché l’obiettivo finale, e Meng lo dice senza un minimo di ironia, è la pace nel mondo. Ecco perché tutti, compreso il presidente degli Stati Uniti, sanno esattamente chi è “the Google guy” e tutti quelli che vanno nella sede dell’azienda in visita fanno una foto assieme a Meng. Nell’atrio del complesso che ospita Google, c’è un megaschermo, con scritto sopra “All the President’s Meng”, in cui scorrono le foto di Meng con i leader del mondo, da Obama al Dalai Lama, passando per Gorbaciov, George Soros, David Miliband e Condoleezza Rice (insieme nella foto). Anche il definirsi tutti manager di qualcosa, come accadeva alla fine degli anni Novanta, sembra una nocciolina rispetto a Meng.

    Finirà che Zuckerberg farà il presidente degli Stati Uniti con vicepresidente Kerp (che in quanto a gaffe sarà un bel ricordo degli anni Duemila-something) e questa bolla avrà fatto morire di paura soltanto me. Mia figlia mi guarderà stralunata dicendo: “Quando c’eri tu non esisteva Facebook e i gay non si sposavano tra loro?” e io cercherò di spiegarle che sì, c’era un mondo prima di Facebook, pieno di discriminazioni ma molto vivibile. Lei dirà soltanto: “Che vecchia che sei mamma”. Ma se per caso questa mania di socialità si rivelasse per quella che è, cioè un’arma di distruzione di massa, se qualcuno di voi dovesse sopravvivere, glielo faccia sapere per favore, alla creatura ingrata, che la mamma, poverina, l’aveva detto.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi