Violenza oltreconfine

Le operazioni sporche della Siria per colpire le retrovie ribelli in Libano

Daniele Raineri

Appena tre giorni dopo essere tornato in Libano dalla Siria per le solite vie clandestine che attraversano i monti, il predicatore sunnita Shadi al Mawlawi è stato convocato da un ufficio servizi sociali del ministero delle Finanze. Era a Tripoli, un centinaio di chilometri a nord di Beirut. “Ti abbiamo assegnato una cifra da spendere per le cure mediche, vieni a ritirarla”, gli hanno detto. Quando al Mawlawi s’è presentato, c’erano gli uomini del dipartimento di Sicurezza generale, il servizio interno di intelligence del Libano, che lo hanno prelevato e portato via.

    Appena tre giorni dopo essere tornato in Libano dalla Siria per le solite vie clandestine che attraversano i monti, il predicatore sunnita Shadi al Mawlawi è stato convocato da un ufficio servizi sociali del ministero delle Finanze. Era a Tripoli, un centinaio di chilometri a nord di Beirut. “Ti abbiamo assegnato una cifra da spendere per le cure mediche, vieni a ritirarla”, gli hanno detto. Quando al Mawlawi s’è presentato, c’erano gli uomini del dipartimento di Sicurezza generale, il servizio interno di intelligence del Libano, che lo hanno prelevato e portato via. Mawlawi ha però un’estesa rete di contatti tra i sunniti salafiti, che nel paese sono una minoranza combattiva ma nella città di Tripoli sono maggioranza. E’ una rete che si estende oltre il confine, dentro la Siria, dove il predicatore ha continui contatti con la resistenza al regime del presidente siriano Bashar el Assad – dentro la resistenza i salafiti giocano la parte dei più duri. In capo a pochi minuti, a Tripoli, un centinaio di uomini armati s’è diretto verso la sede del locale partito libanese alawita, che tifa apertamente per Assad, per chiedere la liberazione del religioso carismatico. “E’ stato un rapimento – dice ora il suo avvocato – e poi avrebbero lasciato il corpo da qualche parte, ma quando hanno visto la reazione hanno trasformato l’operazione in un arresto, per dare una parvenza di legalità”. Che qualcosa fosse storto è chiaro: il ministero delle Finanze ha fatto causa all’intelligence, per non sembrare complice, e il primo ministro, il miliardario sunnita che guida un governo occupato da Hezbollah Najib Mikati, ha criticato l’arresto e chiesto spiegazioni.
    L’arresto di al Mawlawi ha scatenato tre giorni di violenze tra i sunniti e gli assadisti libanesi, con otto morti: mortai, razzi, mitragliatrici pesanti e tutti i giornali a titolare che la violenza siriana stava infine tracimando nel Libano, fino a quando non è intervenuto l’esercito che ha occupato le strade con i blindati per riportare un minimo di calma (gli scontri però si riaccendono qui e là).

    Nella guerra sanguinosa tra Assad e i rivoluzionari, Tripoli, in Libano, è diventata la retrovia sicura oltre il confine, dove i soldati di Damasco non possono arrivare. I sunniti libanesi si sentono fratelli di quelli siriani e da Tripoli inviano combattenti, armi, denaro, medicine e cibo ai siriani in stato di assedio.
    Il sostegno arriva da due gruppi. Uno è al Mustaqbal, il partito di Saad Hariri, il figlio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri ucciso da un’autobomba nel 2005 sul lungomare di Beirut e anche uno degli uomini più ricchi del mondo, secondo Forbes. Della morte di Hariri padre sono da tempo accusati gli agenti di Assad. Il secondo gruppo è formato dai sunniti salafiti guidati dallo sceicco al Mawlawi, che fanno da cinghia di trasmissione per la distribuzione di aiuti e di informazioni con la Fratellanza musulmana e con i servizi segreti dell’Arabia Saudita e del Qatar  – e anche, dicono gli accusatori, con i gruppi estremisti.

    Secondo gli osservatori, l’operazione per rapire e togliere di mezzo al Mawlawi sarebbe stata ordinata da Damasco, per smantellare le retrovie e togliere ai ribelli l’aiuto prezioso che arriva dal Libano. Il capo dei servizi libanesi è il generale Abbas Ibrahim, un uomo di Hezbollah fedele ad Assad. Il regime siriano sa bene che combattere contro una guerriglia che dispone di una base sicura fuori dalla portata delle armi è una fatica di Sisifo. E’ il caso di precedenti storici che suonano come pessimi presentimenti: la Cambogia vicina del Vietnam, il Pakistan confinante con l’Afghanistan. Secondo i giornali libanesi, da tempo l’ambasciatore siriano in Libano, Ali Abdul Karim, esercita pressioni sul comandante dell’esercito di Beirut, Jean Kahwagi, perché fermi il viavai sul confine – e sembra che le telefonate arrivino anche da più in alto. Nell’ultimo mese, gli incidenti di confine in cui i soldati siriani sparano in territorio libanese si sono moltiplicati, e ci sono stati anche due rapimenti. New Lebanon, in un editoriale, si chiede: “Strano. Se gli israeliani sconfinano di un palmo scatta l’allarme generale e non battiamo ciglio con i siriani?”. L’ambasciatore americano a Beirut, Maura Connelly, prova a esercitare una timida pressione in senso contrario, diffidando il governo libanese dal rigettare i profughi e i dissidenti.
    A fine gennaio, le squadre di sicari di Assad a Beirut avevano tentato di assassinare con due autobomba due alti ufficiali dell’apparato di sicurezza libanese, un direttore della Sicurezza generale, Ashraf Rifi, e il suo vice, Wissam al Hassan.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)