Più festival, meno lamenti. Il modello De Gasperi applicato alla musica
L’industria dei festival è l’unica a essere cresciuta del settore musica negli ultimi venticinque anni. Mentre la discografia sta attraversando uno dei suoi periodi peggiori per recessione e crisi, secondo gli ultimi dati raccolti nella sola Inghilterra i 670 eventi tra la primavera e l’estate del 2010 hanno fatto incassare in totale oltre settecentocinquanta milioni di euro, tra vendita di biglietti, turismo, vitto e alloggio dei partecipanti.
L’industria dei festival è l’unica a essere cresciuta del settore musica negli ultimi venticinque anni. Mentre la discografia sta attraversando uno dei suoi periodi peggiori per recessione e crisi, secondo gli ultimi dati raccolti nella sola Inghilterra i 670 eventi tra la primavera e l’estate del 2010 hanno fatto incassare in totale oltre settecentocinquanta milioni di euro, tra vendita di biglietti, turismo, vitto e alloggio dei partecipanti. Gli artisti guadagnano di più con i concerti dal vivo, vista la crisi della vendita degli album e la filiera di case discografiche, distribuzioni, copyright che si mangia più della metà dei profitti per ogni disco venduto. D’altra parte, le grandi aziende sponsorizzano volentieri eventi che raccolgono più di diecimila persone alla volta. Lo dimostra il successo di festival di musica come quello storico dell’isola di Wight, ripartito nel 2002 dopo molti anni di assenza, o del Coachella, che si svolge dal 2001 a Indio, in California. Anche un evento più difficile da raggiungere, come l’Iceland Air di Reykjavík, da anni dispone dello sponsor del ministero del Turismo e della principale compagnia aerea del paese per cui durante la settimana del festival la capitale islandese si riempie di turisti e musicofili [leggi Un posto al sole sempre]. E che i festival siano buoni investimenti lo dimostra anche una notizia di pochi giorni fa: la Sony music sarebbe interessata all’acquisizione della divisione live della catena di negozi inglese HMV, che comprende tredici club e sale da concerto oltre ai marchi di sei festival musicali per un valore stimato di oltre ottanta milioni di euro.
In Italia i festival musicali stentano a decollare, e la colpa è quasi sempre delle polemiche: basti guardare a quelle che si porta dietro ogni anno il concertone del Primo maggio (e che si riassumono quasi sempre in una domanda cruciale: “Chi paga?”). “Il segreto è far tutto da soli”, dice al Foglio Maxmiliano Bucci, direttore artistico di Rock in Roma insieme con Sergio Giuliani, “le responsabilità del nostro festival ricadono tutte su di noi, due piccoli imprenditori romani che tre anni fa si sono inventati un concerto completamente privato, organizzando una partnership con l’ippodromo delle Capannelle e allestendo nel miglior modo possibile un contesto che può piacere al pubblico. Non abbiamo mai preteso di essere un festival nazionale”. Ma festival nazionale sta diventando, visto che i Radiohead apriranno il loro tour europeo proprio con la data romana del 30 giugno, sold out quarantatré ore dopo l’inizio delle vendite, per un totale di ventiquattromila spettatori in una sola serata. Ma ci sono anche i Cure che celebrano il ventennale dell’album “Wish”, la reunion dei Beach Boys, Litfiba, Afterhours e Subsonica tra gli artisti italiani, per un totale di ventisette serate. “Stiamo continuando a investire su Rock in Roma anche se per ora i ricavi sono pochi – spiega Bucci – ma siamo giovani e abbiamo in mano una cosa che ci piace, che piace al pubblico e che ci porta visibilità”. “Imparate una lingua, andate a lavorare all’estero”, diceva Alcide De Gasperi nel ’49 [leggi Non lamentatevi, lavorate di più]. Oppure si può dare un piccolo contributo alla crescita portando un modello straniero su un palco italiano.
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