I figli della Repubblica
"I figli non si pagano!", urlò Filumena Marturano a Domenico Soriano, restituendo la banconota con cui lei era stata pagata. Magari non si pagano (a volte, casomai, te la fanno pagare), ma gli si dà la paghetta. Paghetta, poi, per modo di dire: pagona, emolumento, prebenda – piuttosto. Il grottesco e il drammatico, la pochade e la tragedia – il pianto del padre e i macchinoni pacchiani dei figli, lo stupore del padre e le lauree taroccate, il disorientamento del padre e le feste a Bratislava. Il dolore e il carnevale, la politica e la satrapia.
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“Figlio, figlio, figlio, / giglio, giglio, giglio, / luce di purissimo smeriglio / corro nel tuo cuore e non ti piglio / dimmi dove ti assomiglio / figlio, figlio, figlio, / spaventato giglio, giglio, giglio, / figlio della rabbia e dell’imbroglio, / figlio della noia e lo sbadiglio, / disperato figlio, figlio, figlio” . (Roberto Vecchioni, “Figlio, figlio, figlio”).
"I figli non si pagano!", urlò Filumena Marturano a Domenico Soriano, restituendo la banconota con cui lei era stata pagata. Magari non si pagano (a volte, casomai, te la fanno pagare), ma gli si dà la paghetta. Paghetta, poi, per modo di dire: pagona, emolumento, prebenda – piuttosto. Il grottesco e il drammatico, la pochade e la tragedia – il pianto del padre e i macchinoni pacchiani dei figli, lo stupore del padre e le lauree taroccate, il disorientamento del padre e le feste a Bratislava. Il dolore e il carnevale, la politica e la satrapia. I giornali ora raccontano delle lacrime dell’uomo che voleva creare la Padania e ha perso di vista il tinello – uno stupore di cose ignorate (di cose volutamente ignorate, magari, come a volte le cose che sappiamo/immaginiamo irredimibili e dolorose). Un barbaro che ha visto il suo mondo affettivo ridotto alla ridicola parodia di un mondo di aspirazioni piccolo-borghesi – chi non vorrebbe la bionda, la laurea facile, la macchina veloce? – e che di stupore in stupore, e sempre con più afflizione, passa. “Come sarebbe? In vacanza? Come in Marocco? Perché in Marocco?” – si domanda sul Corriere, alla notizia della spiaggia dove il Trota si sta abbronzando in questi giorni fatali: domande da spaesamento, domande che portano ferite. Così, il malato leader. Che pure non poco s’incaponì per fare di Renzo il suo successore, trascinandolo con incauta prodigalità per conventicole federaliste, palchi leghisti, adunate padane. E coniando lui, papà Umberto, il soprannome che l’avrebbe consacrato alle cronache e al dileggio: il Trota, appunto – bestia di poca scaltrezza, facile preda in laghetti artificiali con famigliole annoiate intorno a una lenza con amo immobile e stupido. “Mi avete preso per il culo!”, dice ora il leader trascinato nel tramonto politico e nell’irrisione giornalistica. “Non avrei dovuto fare entrare i miei ragazzi in politica, è stata una cazzata”. Effettivamente sì – ché la scarsa caratura per le sottigliezze e il carisma già s’intuiva. “Sono figli – ha scritto la Stampa – che succhiano anime e Suv Bmw, e i padri che pagano, cioè più che altro fanno pagare gli altri, ma alla fine pagano pure loro, in altro modo”.
Come certi (pochi, per la verità) saggi pontefici, che una volta eletti al soglio di Pietro s’affrettavano, quale primo atto, a comunicare ai parenti di non presentarsi a Roma – così bisognerebbe fare, con la figliolanza che assedia e ancor meglio si accomoda. E’ che ogni padre il figlio crede (vuol credere, s’intende) di qualità dotato, d’intuito fornito, di genio persino – dove a volte persino l’essenziale latita. E’ il cuore di padre, che così rumorosamente batte che obiezioni non sente. Ci sono i figli che spintonano, ci sono i padri (e le madri) che a loro volta premono. “Nella mia infanzia io ho posseduto una famiglia normale – o piuttosto ne sono stato posseduto – vale a dire quel tipo di famiglia che, per vivere, ti fornisce di laurea e di una certa quantità di demenza”, annotava più di trent’anni fa Giorgio Manganelli. Lauree albanesi, poi – che diffusa dev’essere, tra i possedimenti padani, la convinzione che lì in Albania un’università nemmeno ce l’hanno. E’ l’irrompere sulla scena dei figli che spesso marca l’uscita dalla stessa del genitore – passaggio che non si compie, reciproco coprirsi d’ombra che alla penombra poi tutti conduce, vecchi e giovani. Come fu l’esemplare caso di Wilma Montesi, il povero corpo abbandonato sulla spiaggia di Torvajanica, primo scandalo usato per affondarsi reciprocamente i canini dentro il gran corpaccione democristiano – così che Attilio Piccioni, potente emergente, fu costretto all’uscita di scena dopo il coinvolgimento del figlio Piero, jazzista di valore, nella vicenda – Piero che fu riconosciuto innocente, ma l’ombra che ti cala addosso non è ombra da cui poter sgusciare via facilmente. Del resto, se non possono fare i notai, se non possono fare i farmacisti, se non possono fare i giornalisti – tante e svariate categorie dove il figlio di, di tale babbo, fa identica professione, seppure il più delle volte senza identica gloria – i figli dei politici si buttano su quello che hanno imparato a riconoscere. A fiuto, come il cocker di casa. Disgraziatamente, dietro l’affetto dell’onorevole sempre l’affetto di padre si nasconde: ah, il mio ragazzo, sapeste… Il suo ragazzo potrebbe andare a “spesare” la mattina al mercato, impastare una pizza, stuccare un muro, senza immaginare di farsi carico delle sorti della Repubblica, ma la tentazione c’è, la strada facile appare, la remunerazione appetibile è. “Non tutti hanno la fortuna di nascere trovatelli”, rispose un giorno Guido Carli a chi lo accusava di aver aiutato la prole. E’ forte la tentazione: di convenienza – quale degna sistemazione; di convinzione – quale assoluta vocazione. Una volta, nella vituperata Prima Repubblica, il confine sembrava più netto, e un politico di rango difficilmente rischiava la faccia con un pargolo inadatto a stare sul palcoscenico. E dunque si potevano avere i casi di Massimo D’Alema, figlio del senatore Giuseppe, che tredicenne comiziava già davanti a Togliatti – il quale Togliatti, forse è leggenda, ma certo qualcosa lascia intendere, ebbe a compiacersene: “Ma quello non è un bambino, è un nano!”. O di Mario Segni, figlio di Antonio, presidente della Repubblica. Di Giorgio La Malfa, figlio di Ugo, e Ugo e Giorgio furono anche deputati negli stessi anni, nella stessa Aula, nello stesso partito – così che i detrattori o gli invidiosi, e non per la benemerita laurea a Harvard, lo aveva ribattezzato, figlio di tanto padre, “Gesù Bambino”. E dire che giurava che così non sarebbe stato. “Con quel cognome farai il politico”, gli ripetevano. “Meglio morto”, giurava lui. Meglio ministro – che pure il ministro riuscì a fare. E lo psicanalista Claudio Risé su Vanity Fair analizzò, ovviamente in forma di analisi, il rapporto tra un padre così importante (e ingombrante) e il figlio. “L’uomo che non si scrolla di dosso l’ombra del padre rischia di invecchiare anzitempo. E di invecchiare senza allegria”.
C’erano interi pezzi di partito – democristiano nel caso – che passavano di padre in figlio, quasi come legittima eredità politica, come successe con i Gava, da Silvio ad Antonio, ma indubbiamente capacità e qualità c’erano: dorotee (“In ogni democristiano sonnecchia un doroteo”), ma c’erano – e condivisero pure loro la simultanea elezione: al Senato Silvio, a Montecitorio Antonio. E un’indubbia passione a volte succede d’intravedere – e il nome non è tutto, seppur il prestigio del nome ha il suo peso – facendo attenzione a non accostarlo a diplomi balcanici o a vistose esibizioni mondane. Come Franca Chiaromonte, senatrice del Pd, figlia di Gerardo, storico capo del Pci. O Giuseppe Cossiga, eletto nelle file del centrodestra, figlio di Francesco, inquieto presidente della Repubblica negli anni della grande frana che chiuse la storia aperta dal Dopoguerra. O Enrico La Loggia, ex ministro di Berlusconi: suo padre fu a lungo presidente della regione Sicilia. Anche Maura Cossutta, figlia di Armando, condivise con papà alcuni anni di sorte elettorale nel Parlamento italiano – e la sua mancata ricandidatura, si racconta, portò a un feroce scontro tra Armando e Oliviero Diliberto, allora segretario dei Comunisti italiani. Ma appunto, tutt’altre storie – mica di pesci da laghetto sportivo, una certa aria che si finisce sempre col respirare e inevitabilmente con il condividere: onestamente, c’è una certa differenza tra il veder girare per la casa paterna Giorgio Amendola o magari attardarsi nel tinello con l’onorevole Borghezio. Certi bimbi a caratura comunista non si trattenevano neanche davanti alla televisione, quando vedevano arrivare i carri armati dei vincitori: “Budiet Revolutzia!”, arriva la rivoluzione! – e quindi una predispozione s’intuiva, seppure in seguito poteva dirazzare per tutt’altre lande – dirazzò, dirazzò… Quella no, la rivoluzione mai arrivò, né col babbo né con l’infante: ma per dire, a Frosinone, feudo socialdemocratico della Prima repubblica, si poteva registrare il passaggio di mano dal senatore saragattiano Dante Schietroma al figlio Gianfranco, così che il giornale locale s’impennava e declamava: “Dante Schietroma padre e maestro, Gianfranco Schietroma figliuolo e allievo che ha saputo ritagliarsi spazi tutti suoi”. Faccenda tanto annosa, questa dei figli sulle orme politiche dei padri, che già più di vent’anni fa, un’era geologica prima de “La casta”, Goffredo Locatelli e Daniele Martini pubblicarono un apposito volume sulla faccenda: “Mi manda papà. Il nepotismo e la nomenklatura familiare nelle vita pubblica italiana” (Longanesi) – titoli di studi albanesi esclusi: si rischiava ancora di incappare, più che nella prestigiosa “Universiteti Kristal” di Tirana in una forse più struttura “Universiteti Enver Hoxha”.
La Prima Repubblica ebbe a cominciare l’agonia nell’era del famoso Caf (la triplice formata da Craxi, Andreotti e Forlani), e qualcuno, tra i loro eredi, la sorte politica ha tentato – senza mai raggiungere, si capisce e si poteva intuire, le vette carismatiche e di potere dei genitori. Andreotti, con più discrezione, ha fatto per un po’ circolare nell’arena politica un genero, Marco Ravaglioli, che rispettosamente lo chiamava sempre Andreotti e non Giulio, e un nipote, Luca Danese, che pure nel volume di Locatelli e Martini veniva presentato come “l’Andreotti del Duemila”. Ma infine, nessun altro Andreotti, tra la Gens Giulia, dopo Andreotti Giulio. In campo è rimasto il figlio di Forlani, Alessandro. Che però con il papà al vertice della Dc, venne lo stesso trombato alle elezioni regionali: “Non ho battuto a fondo la provincia come hanno fatto altri amici. (…) Credevo di essere conosciuto abbastanza dato anche il nome che porto” – eco di una storica battuta di suo padre: “Lenin, mi pare, diceva che la felicità è nella lotta. Io non credo”. Quasi come contrappasso per la brutta sorpresa ricevuta nelle urne, fece pubblico elogio del film “Il portaborse”, con Nanni Moretti, che alle parti basse della classe politica di allora mirava: “Un’opera forte, forse un po’ eccessiva, ma che colpisce nel segno. Odio i comportamenti di quel tipo”. E poi, i figli di Bettino. Una saga, a lungo una dolorosa vicenda pubblica, uno scontro con punte di accesa polemica tra Bobo e Stefania: sempre, uno da una parte e una dall’altra. Politicamente, anche umanamente – nel rivendicare il rapporto umano con Bettino, innanzi tutto. E’ andato avanti per anni e anni – “argomento stucchevole, come ogni cosa che duri per troppo tempo, troppo uguale”, scrisse esasperato persino il Corriere. Una rappacificazione qualche anno fa sulla tomba di Craxi, e chissà… Però è Stefania stessa che ora fa un diretto paragone tra i figli dei padri della Prima Repubblica (come lei, come Bobo) e gli attuali: “Non immagino me e mio fratello, ma neanche i figli di Andreotti o Berlinguer, aggirarsi in Porsche, passare le notti in discoteca o accompagnare le veline di turno”.
Grandi prove, al momento, non se ne sono viste. Anche Antonio Di Pietro ha dovuto sudare qualche camicia, dietro la tentazione elettorale di suo figlio Cristiano. Quando l’anno scorso è stato candidato alle regionali, tra le file dell’Idv in Molise è successo un parapiglia. “Di Pietro come Bossi, accomunati dalla stessa concezione familistica e privatistica della politica”, si è inalberata l’intera sezione di Termoli. Il papà si è risentito per il paragone: “Ci sono figli e figliastri, c’è differenza tra il ‘Trota’ di Bossi e il figlio di Di Pietro. Cristiano ha iniziato la sua carriera politica come consigliere comunale, poi consigliere provinciale, se vorrà candidarsi alle regionali sarà una scelta del tutto personale e non perché figlio di…”. Sarà. Comunque il “G’ Day” di Geppi Cucciari su La7 si divertì ad andare in giro a intervistare le gente ponendo la seguente domanda: “Figli in politica: meglio Di Pietro Jr. o il Trota?”. E’ un elenco lunghissimo, quello dei figli di… D’arte, si potrebbe dire – non molto artistici, per la verità, appaiono i risultati, nonostante gli sforzi di tenere alto il nome di famiglia (nel Pd c’è chi ancora non ha superato del tutto lo stupore quando, nel 2008, si videro arrivare tra gli eletti una graziosa ragazza: Daniela Cardinale, figlia dell’ex ministro Salvatore, che aveva rinunciato alla candidatura per favorire quella dell’erede).
Si capisce, una Cornelia (un Cornelio, meglio) che si possa affacciare, senza eccessiva faccia tosta, sulla scena pubblica, tenendo sotto braccio la propria figliolanza ed esclamando “Haec ornamenta mea”, così da voler spartire i propri gioielli con l’elettorato tutto, per ora non s’intravede. Grandi prove, quando non si è trattato di grandi danni, non ne hanno fornite. E le molteplici candidature parentali – favorite da una legge elettorale che non permette il rigetto di quelle indigeste – più che un elemento di emancipazione e di rinnovamento, sembrano un patetico prolungamento di politici di vecchio (e in qualche caso ormai rarefatto) pelo. Più forte è la sensazione del fastidio che si respira in giro per certe forzature – il figlio, e passi; ma la qualità del figlio (ed eletto nostro), insomma – più ci s’incapriccia nella scelta. Come ha detto saggiamente Bossi: è una cazzata. Come diceva, in maniera un po’ più articolata, Giorgio Manganelli – partendo dalla constatazione che “le tribù non sono ragionevoli”: “Fluttua oggi nell’ambiente domestico un sentore di follia”. Un po’ di “piccole virtù” buttate qua e là, un po’ di tepore istituzionale assicurato agli eredi (e ci siamo tenuti ai figli, e non a tutti, trascurando fratelli e generi e amanti), un po’ di patetico tentativo di perpetuare una sorta di eternità che in eterno, ma ormai neanche a valutazione semestrale, non può durare.
Più di vent’anni fa, a incazzarsi per un simile andazzo erano già in molti, da Montanelli – ce l’aveva con Bobo eletto segretario del Psi milanese, “ci ha fatto improvvisamente comprendere le ragioni della longevità della Chiesa: i Papi e i Cardinali non hanno figli. E se li hanno, li tengono nascosti” – a Ronchey, “s’impone la nomenklatura dei parenti, simile a quella delle famiglie brezneviane oggi spodestate, o il nepotismo di Stato, simile a quello della Roma papale…”. Diceva un verso del “Profeta” di Kahlil Gibran, che ogni liceale ha di certo consultato e chiosato: “I vostri figli non sono i vostri figli…”. Magari. E comunque bastava quello italiano, di diploma liceale.
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