Presidenziali al Cairo

Che cosa succede nella testa dei Fratelli musulmani

Daniele Raineri

C’è da capire che cosa sta succedendo in questi giorni ai quartieri generali della Fratellanza musulmana, ovvero dentro la testa pensante e collettiva dell’associazione, che ora è divisa in due tronconi situati in due parti diverse del Cairo: il partito è nel quartiere-isola sul Nilo di al Manial, la Fratellanza è nella nuova sede di Moqattam. Ieri gli egiziani hanno aspettato la sera, quando il caldo comincia a farsi sentire di meno, per andare a votare alle prime elezioni presidenziali degli ultimi trent’anni e scegliere chi mettere al posto di Hosni Mubarak.

    C’è da capire che cosa sta succedendo in questi giorni ai quartieri generali della Fratellanza musulmana, ovvero dentro la testa pensante e collettiva dell’associazione, che ora è divisa in due tronconi situati in due parti diverse del Cairo: il partito è nel quartiere-isola sul Nilo di al Manial, la Fratellanza è nella nuova sede di Moqattam.

    Ieri gli egiziani hanno aspettato la sera, quando il caldo comincia a farsi sentire di meno, per andare a votare alle prime elezioni presidenziali degli ultimi trent’anni e scegliere chi mettere al posto di Hosni Mubarak, cacciato l’anno scorso dalla rivoluzione incompiuta dei giovani di piazza Tahrir. Veicoli militari con altoparlanti circolavano lenti per le strade, trasmettendo alla popolazione generici inviti ad andare ai seggi. Il primo turno finisce oggi. Ci sarà un ballottaggio fra i due candidati piazzati meglio, il 16 e il 17 giugno, lo stesso giorno delle elezioni bis e decisive in Grecia (il Mediterraneo era uno spicchio di mondo immobile, si sta facendo agitato).

    Per la prima volta, il risultato del voto non è già noto in anticipo, e a nulla valgono le fughe di notizie che arrivano sul voto già scrutinato degli egiziani residenti all’estero, che hanno votato prima. Circa la metà di loro vive in Arabia Saudita e falsa le proiezioni con una sovrarappresentazione del potere islamista. Se il voto seguisse lo stesso andamento anche in patria, vincerebbe al primo turno Mohamed Morsy, il candidato dei Fratelli.
    Per la Fratellanza queste elezioni sono invece una prova più difficile e quasi esistenziale, nel senso che ne dipenderà l’esistenza futura: se le superano sarà il trionfo atteso da ottant’anni, se qualcosa va male potrebbe scoppiare una crisi pericolosa quanto e forse più delle ondate di repressione che negli anni passati erano periodicamente scatenate dal regime.
    La questione, dice Shadi Hamid, della Brookings Institution, riguarda la capacità stessa della Fratellanza di rimanere in vita dopo il voto. La spiega così: se Morsy non supera il primo turno, i Fratelli potrebbero decidere di votare il carismatico Abou Fotouh, l’ex loro compagno che è fuoriuscito dal gruppo per correre da indipendente. In questo modo, tradirebbero il principio fondamentale del gruppo: premierebbero l’uomo a discapito delle istituzioni e darebbero il voto a un candidato affine a loro (per la sua natura di islamista) ma che ha disobbedito platealmente ai vertici, che l’anno scorso avevano promesso che nessuno avrebbe partecipato alla corsa presidenziale (quest’anno i Fratelli si sono rimangiati la parola, ma è un’altra storia). Oppure potrebbero votare il candidato laico e non ideologico Amr Moussa, che è il preferito – anche se non lo dicono pubblicamente – dai leader della Fratellanza. Con Moussa è sempre possibile stringere un accordo pragmatico senza farsi mai troppo male; però, di nuovo, sarebbe un voto (a un candidato non islamista) in dissonanza con gli obiettivi del gruppo. In ogni caso, che diano il loro voto a Fotouh o a Moussa, i Fratelli perderebbero irrimediabilmente quel preciso senso del sé e quella compattezza che avevano durante gli anni della persecuzione.

    Pure se Morsy arriva al ballottaggio, non è detto che la disciplina di partito funzioni. Si tratta pur sempre di un candidato rimediato all’ultimo momento, stentoreo ma poco articolato, al limite del grezzo, che ha sostituito il ben più abile Khaiter al Shater, ricco imprenditore che ha messo la sua abilità nel business al servizio della Fratellanza ma che è stato eliminato dalla corsa da una sentenza del comitato elettorale.

    Per questo il gruppo sta proiettando sulle presidenziali tutta la sua macchina organizzativa e tutta la sua potenza di fuoco, la stessa che ha portato alla vittoria annunciata alle elezioni parlamentari dello scorso inverno: domenica, ultimo giorno di campagna elettorale, c’erano 24 grandi manifestazioni di piazza in simultanea in tutto il paese.

    A complicare le previsioni c’è anche la rimonta improvvisa di Ahmed Shafik, ultimo primo ministro del deposto Mubarak, che allo stesso tempo è simbolo dei felool, ovvero dei rimasugli del regime, e candidato non dichiarato dell’apparato dei militari che infatti fa circolare sondaggi poco scientifici sulla sua già “quasi vittoria”.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)