Felpato e lento regno dei segni, dove l'umano sopravviveva al divino. Ora la curia è soltanto una burocrazia

Compianto dell'uomo curiale, che fu tutto e ora è inutile corvo

Stefano Di Michele

Fatta la tara su Dio – che certo non è poca cosa far la tara su Dio, ma del resto è Dio troppa cosa per simili faccende – forse la necessità della curia (dove “ci si diletta anche bevendo aceto”, diceva il carmelitano Marziale), non meno del buono che può venire da un ragionato atteggiamento curiale, si può più facilmente comprendere. Luogo di penombre, dove la realtà si esprime per metà: mezze parole, mezzi gesti, mezzi sorrisi.

    Fatta la tara su Dio – che certo non è poca cosa far la tara su Dio, ma del resto è Dio troppa cosa per simili faccende – forse la necessità della curia (dove “ci si diletta anche bevendo aceto”, diceva il carmelitano Marziale), non meno del buono che può venire da un ragionato atteggiamento curiale, si può più facilmente comprendere. Luogo di penombre, dove la realtà si esprime per metà: mezze parole, mezzi gesti, mezzi sorrisi. Il “sì sì, no no” sarà pure evangelico, ma è soprattutto un lusso e un danno – sia il vostro sì anche il vostro no, e il vostro no possa pure intendersi quale sì. La mano anellata che si protende molliccia al bacio, il lieve inchino, quel frusciare di tonache che si perde lungo infiniti corridoi – rumore di passi che la suggestione evoca secolari, e magari sono solo piedi stanchi e callosi e (male)odorosi di stanchi minutanti. E’ il regno dei segni, quello che idealmente dovrebbe rappresentarsi come anticamera del regno di Dio: chi a quella messa c’è (e su quella recente di Pentecoste, e su certe assenze prima che su certe presenze, è un sordo rumoreggiare tellurico negli anfratti dei Sacri Palazzi), chi lo sguardo del cardinal segretario ha cercato, quale faccia il Santo Padre ha provato a evitare.

    Un piccolo regno di maschi in parte evanescenti e vanitosi – a contrastare la stessa etimologia del luogo: “Co-viria”, adunanza di uomini virili, pensa tu – sospettosi e ambiziosi, chi di sicura sapienza e chi d’incerta infarinatura. La curia, prima dello scatenarsi degli ultimi mesi, era barca sospesa nei secoli della bonaccia, di rito in rito, di avanzamento in avanzamento. Una sorta di teologia ministeriale dava un po’ di fiacco vento nelle vele – ma nessuno di più ne chiedeva e di più non ne abbisognava: era la barca di Pietro, che da millenni va (e nonostante tutto va: diceva quel cardinale a Napoleone che minacciava di distruggere la chiesa: “Si figuri, Maestà, se non ci siamo riusciti noi…”), mica natante da ospitata formigoniana (dove, si dice, c’era pure un altarino: Nostro Signore dal Golgota a Formentera?). Il sopravvivere lento della e nella curia – gli stessi occhi, le stesse facce, gli stessi riti, antipatie che passavano da Papa a Papa, e nemmeno a ogni morte di Papa venivano a cessare. Esserci, ma non troppo. Mostrare il potere, ma apparire ad esso sfuggente. Avere ambizione, ma l’ambizione con modestia di sguardo negare. Stare in alto, mostrando di desiderare il basso.

    E’ un filo sottile da tela di ragno, e tagliente da bisturi chirurgico, il camminamento che ogni curiale di rango deve saper percorrere: un equilibrio che il semplice peso di un’ostia può far precipitare. Far intendere di essere molto diverso dalla massa, ma nella massa confondersi e immedesimarsi. Apparire defilati, e intanto stare in mostra. Spiegava così il cardinale Ciriaci il suo faticoso sottrarsi: “Ho sempre amato fare le cose a tempo e luogo, mai per mettermi in mostra come sovente accade qui in curia, dove la burocrazia schiaccia la personalità, tende a costruire gli uomini su moduli consueti e monotoni”.
    Era la monotonia una delle forze della curia. La noia, la ripetizione compulsiva, i soliti sospetti, un’immobilità di pietra quasi a volersi confondere con la Pietra su cui tutto si regge – elementi che per un malpensante potrebbero avere il peso delle cose morte, e per un disciplinato fedele quello dell’eternità. E magari inaspettatamente qualcosa succede, “nella curia molte cose possono accadere tra bocche e bocconi”, un sospiroso stupore di fondo – un eminentissimo scambiato per un eccellentissimo, oh Signore! – per poi far nuovamente calare il sipario, e un guizzo ancora per quel tale monsignore a sorpresa nominato “protonotario apostolico soprannumerario”. Tanto, come diceva il cardinal Tardini, “in Vaticano si muore solo di indigestione”. E il ritmo identico riprende, e il sussurro si rifà inascoltabile, e un velo a coprire gli sguardi.

    Disse Paolo VI ai giornalisti: “Noi siamo difficili. Ma voi dovete leggerci. Dovete penetrare questo alfabeto poco noto, così come bisogna leggere i geroglifici per capire una piramide egizia…”. Era il Papa che parlava così – e della sua chiesa parlava. Figurarsi la curia, i malfermi rematori che dovrebbero tenere a galla l’apostolico naviglio. Recita il decreto “Christus Dominus”, approvato dal Concilio, che “nell’esercizio della sua suprema, piena e immediata podestà sopra tutta la Chiesa, il romano Pontefice si avvale dei dicasteri della Curia romana, che perciò compiono il loro lavoro nel suo nome e nella sua autorità, a vantaggio delle Chiese e dei sacri pastori” – e a leggere le cronache odierne, viene da pensare che sta messo bene, il sant’uomo. La Curia romana – pur guardata con sospetti da non pochi Papi (sempre Paolo VI, appena eletto rappresentò così il Vaticano ai suoi parenti, “saturo di grandi pensieri e di piccoli pettegolezzi”), da tanti cardinali, da semplici preti sotto ogni latitudine (“Vedo una corte di intrighi”, ha detto don Vinicio Albanesi), ha per secoli svolto il suo compito – di sala macchine, si potrebbe dire, della parola di Dio: un po’ macchinisti e un po’ teologi, un po’ vivandieri e un po’ spirituali, chi magari faceva la cresta sul carburante del celeste manufatto e chi donava ai poveri ciò che possedeva. Nel suo miscuglio, nel suo prolungato silenzio, nella sua esasperante lentezza – aveva una grandezza che l’ha preservata nei secoli. Che ne ha fatto un luogo di qualche peccato, di molte eccellenze, di alcune miscredenze.
    Tutto si sommava e si teneva, il grosso scandalo e i piccoli vizi, la pericolosa eresia e la vanità ciarliera di un monsignore, le antipatie e gli odi con bell’ipocrisia sfumati e sterilizzati. Come la “Pleasantville” del film, tutto pareva tenue e sfumato, rassicurante bianco e nero – poi, come al cinema, una crepa si apre, un’altra, un’altra ancora, irrompono voci e colori e (qualche) verità: ché ovviamente non necessita la curia di verità, considerando bastevole quella iniziale, tutto il resto trova accomodamento. Persa la sua sacralità – il corvo al posto della bianca colomba, il maggiordomo invece del filosofo marxista, quelle lettere a Ratzinger che sono per buona parte eccellenti pettegolezzi: che magari si fosse trattato solo dell’anticristo! – finita sulla bocca di tutti, e da molti irrisa, la curia rischia di perdere adesso ogni sua funzione.

    Era un piccolo mondo antico che ha trovato consacrazione in tanti libri – con malizia da sacrestia, il più delle volte, umorismo da dopo oratorio, oppure in certi volumi dove il veleno pareva correre più del vin santo – e in particolare in quel capolavoro che sono i diari di Benny Lai, “Il mio Vaticano”: dove per centinaia e centinaia di pagine è la vita quotidiana a scorrere lungo i decenni, rancori e sofferenze, stupidità e grandezze, miserie e comicità. “I monsignori romani amano le disquisizioni eleganti come amano le pantofole, le une e le altre segno di tranquillità”. Un curiale soffre di cose di cui nessun altro al mondo soffrirebbe mai – in un mondo di segni, l’assenza di quei segni turba e fa smarrire l’orizzonte. “Qui di maldicenze ne abbiamo a bizzeffe”. Un vuoto abbaiare alla luna, troppe volte. “I monsignori curiali, soprattutto quelli chiamati ‘turiferari d’ufficio’, hanno la vocazione delle mezze parole e dello sguardo furtivo. Se si pongono loro domande precise e dirette tolgono il saluto”. In pieno Concilio, i vescovi stessi cominciarono (cristianamente) a mirare sul quartier generale: “Il potere della curia deve finire. Il mondo s’avvia verso la democrazia e la nostra vita è regolata ancora su concetti di assolutismo, di dipendenza…”.

    Come dicevano i prelati conservatori dopo le innovazioni liturgiche di Papa Paolo – che dalla curia bandì orpelli spagnoleggianti, guardie nobili, residuati vari – e come forse adesso è più vero che mai, “il toro gira impazzito nell’arena”, fosse pure corvo, stavolta. Qui chissà se si salva il papato, figurarsi se il problema è la sopravvivenza della curia – che il dirne male, in fondo, è un genere letterario secoli prima di Dan Brown. E’ pure la “Roma senza papa” di Guido Morselli (dove un monsignore dà perfetta descrizione della curia, “finendo di essere una corte per ridursi a una burocrazia, la Santa Sede ha perso in splendore senza guadagnare in precisione”), l’invocazione pasoliniana al pontefice perché vada “a sistemarsi in clergyman, coi suoi collaboratori, in qualche scantinato di Tormarancia o del Tuscolano”. Un quaresimalista perenne, servirebbe. Sarà duro risalire agli antichi stupori, con la curia che pareva immensa da fuori e poi piccola da dentro – e ora piccola e maldicente appare vista da dentro, e forse ancor più vista da fuori, smarrita dell’antico insegnamento del panegirista Danelli, “il raccomandare la velocità nell’udire e la tardanza nel parlare”. I silenzi parevano sfiorare l’eternità – beghina, credulona: sia pure; lo scrivere, il parlare, il trafficare la cronaca, persino nera. La grandezza della razza curiale forse è andata perduta per sempre. Fuori dalla cittadella alabardata di guardie svizzere, non se ne trova più traccia: della curialità grandiosa e micidiale dei democristiani, nella curialità grandiosa e micidiale dei vecchi comunisti. In una sgangherata estetica che va dalla Sistina a certa mobilia orrenda anni Settanta, poltroncine in similpelle, croste devozionali alle pareti. E gendarmeria e celle e sospetti. Troppo umani, così hanno smesso di essere buoni curiali – smesso sapienza e cinismo e misura. Una gran perdita: come passare da Letta a Catricalà. E Dio, si diceva, è troppo per entrare in così poco.